Durante i giorni del lockdown, ce lo siamo chiesto tutti ripetutamente: come avremmo fatto senza la rete? Allontanati dagli affetti e dai nostri riti, i più fortunati o sventurati (lascio a voi il giudizio) chiusi dentro casa a lavorare davanti a uno schermo, studenti e insegnanti alle prese con la didattica a distanza, i pomeriggi lunghi tra notizie catastrofiche e l’evasione delle serie tv in streaming, le videochiamate, le webconference, lo shopping online, i social media. Nel giro breve di poche settimane la nostra vita reale si è spostata sulla dimensione piatta della rete che in Italia, come nel resto del globo, ha registrato impennate mai viste. Solo nella prima settimana di lockdown, nel nostro Paese, si è registrato un incremento nel consumo di internet nell’ordine del 33%. La notizia buona è che la rete ha retto, quella cattiva è che il mondo è cambiato e, nella maggior parte dei casi, non abbiamo ancora maturato la consapevolezza necessaria a non subire questa condizione, ma a governarla.

Qualche dato interessante è emerso anche dall’indagine sullo smart working, promossa dall’Ufficio Politiche di genere della Cgil nazionale e condotta dalla Fondazione Di Vittorio, proprio nel periodo di chiusura totale. Il report, il cui obiettivo era far emergere le criticità del lavoro da casa in una situazione estremizzata, quindi con una lettura più rapida, ha indagato anche sul rapporto con la rete, la strumentazione e l’informazione, consegnandoci alcune riflessioni. Molti hanno lamentato la mancanza di competenze nell’utilizzo dei software per il lavoro a distanza, pochi la presenza di una rete non all’altezza delle esigenze, con una strumentazione non professionale. Nodi da tenere ben presente, se si pensa di spostare massicciamente il lavoro dalle sedi a casa. Tanto più senza l’intermediazione del sindacato, che la legge sul lavoro agile non prevede.

L’altro dato interessante riguarda l’informazione. Se il 24% ha dichiarato di essersi informato via tg, il 23% lo ha fatto in rete e il 15% attraverso i social network. Dati che meritano un’attenta riflessione anche alla luce dell’intervento della vicepresidente della Commissione Ue Vera Jourova, che qualche giorno fa ha spiegato come durante la crisi Covid-19 alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, sono stati al centro di un flusso intenso e costante di fake news, originate da Russia e Cina, sulle tematiche legate al coronavirus, con l’obiettivo di destabilizzare i governi di quei Paesi e aprire fronti di crisi all’interno dell’Unione Europea. Mentre ancora si discute su come arginare la disinformazione e gli attacchi in rete, siamo davvero pronti a trasferire sul web e sui social settori sempre più ampi delle nostre vite?