In queste settimane, in previsione della discussione sui contenuti del Pnrr, abbiamo voluto realizzare un’analisi di maggiore dettaglio sulle dinamiche di sviluppo (occupazionale, economico e industriale) prodotte da Industria 4.0. La finalità dell’analisi è quello di dotarsi di strumenti per poter proporre un utilizzo delle risorse europee, messe a disposizione dell’Italia per la transizione digitale (46 miliardi di euro), per realizzare uno sviluppo che risponda efficacemente a più questioni: sociali, economiche, industriali, occupazionali e ambientali del Paese. La nostra analisi parte necessariamente da una verifica delle azioni poste in essere sia nell’ultimo anno che negli anni precedenti, per comprendere quali siano stati gli effetti conseguiti e le incongruenze degli elementi di programmazione rispetto ai risultati attesi.

Nel Pnrr si afferma che “il governo ha stanziato ingenti risorse per sostenere redditi e occupazione, tutelare le persone più vulnerabili (…) e garantire un costante flusso di liquidità all’economia. Nel complesso i ristori, gli sgravi fiscali e le altre forme di sostegno introdotte nel corso del 2020 ammontano a 108,3 miliardi (il 6,6% del Pil), le garanzie e le moratorie sui prestiti hanno sostenuto l’erogazione del credito per circa 450 miliardi”.

In realtà accanto a interventi di sostegno nell’immediato per lavoratori dipendenti, autonomi, indigenti, sono state previste sovvenzioni per le imprese, e non solo per quelle in difficoltà. La storia delle sovvenzioni e degli incentivi al sistema delle imprese non nasce certo in questa pandemia. È abbastanza datata, e si è rafforzata dopo la crisi del 2008, quell’idea secondo la quale per uscire dalla crisi economica, e più in generale per risolvere i problemi anche occupazionali del nostro Paese, sia necessario abbassare il costo del lavoro, incentivare le imprese a investire, assumere, patrimonializzare o incrementare la remunerazione netta del capitale.

A partire dal 2015, sono stati erogati incentivi, decontribuzioni, riduzioni delle imposte per importi che cumulati sono di rilevante entità.  Parliamo, al netto dei provvedimenti Covid, di oltre 85 miliardi, cui si possono aggiungere circa 55 miliardi nel solo 2020 delle risorse anti pandemia destinate alle imprese. Una cifra equivalente, grossomodo, alla metà del Pnrr, che dimostra come le risorse che sembrano sempre carenti in realtà negli ultimi 5 anni siano state trovate e spese. La domanda che noi ci poniamo in questa nostra analisi è se questo è stato fatto efficacemente.

Nello specifico, in Italia, il progetto per l'industria del futuro, Industria 4.0 (che ricordiamo prende il nome dall’iniziativa europea Industry 4.0, a sua volta ispirato ad un progetto del governo tedesco), prende inizio nel 2017, prevedendo investimenti per 18 mld di euro attraverso l’utilizzo di strumenti fiscali: iper ammortamento e super ammortamento a favore delle imprese italiane che avessero investito in “innovazione tecnologica/digitale”.

Per procedere nel ragionamento bisogna partire dalla lettura approfondita dei dati che emergono dalle schede sugli indicatori “ICT” (o meglio di sviluppo tecnologico e digitale) delle imprese (oltre i 10 dipendenti). 

Le schede sono realizzate dall’Istat sui dati degli anni 2017/18*, in alcuni casi anche del 2019.

Le schede, nella loro articolazione, aiutano ad analizzare e comprendere:
- lo stato di digitalizzazione e propensione delle imprese italiane all’innovazione;
- lo stato delle infrastrutture a disposizione;
- le dinamiche dei settori;
- lo stato della formazione e della ricerca (assunzioni) del personale specializzato;
- le dinamiche commerciali.

Il lavoro realizzato dall’Istat ci fornisce un quadro piuttosto chiaro e dettagliato dei comportamenti delle imprese nell’utilizzo delle risorse di Industria 4.0. Rappresenta infatti per settore quale siano state le tecnologie digitali acquistate e quali siano i fattori considerati rilevanti per lo sviluppo tecnologico. 

Alcuni dati rilevanti:
- Area IoT - Internet delle cose: (aziende che hanno investito 9,9%). I maggiori investimenti (oltre il 20% delle imprese) nelle aree più avanzate tecnologicamente (telecomunicazioni, elettronica, computer, elettromedicali, Ict, produzione cinematografica e televisiva). Sotto al 14% nelle aziende di fornitura elettrica, gas, acqua, rifiuti, servizi fognari. Al 18% nelle imprese che si occupano di alloggi. Sotto al 10% in ambito manifatturiero e industriale.
- Area robotica: (aziende che hanno investito 3,5%). Gli investimenti più rilevanti per settore: il 20,3% l’automotive; l’11,8% raffinazione del petrolio, prodotti chimici ecc.; sotto al 10% metallurgia e industria pesante, elettronica, computer, elettromedicali, apparecchiature elettriche.
Area cloud computing: (aziende che hanno investito 16,1%) oltre il 50% le imprese Ict, servizi informatica, telecomunicazioni, attività editoriali; oltre il 40% agenzie viaggio ecc.; oltre il 30% imprese cinematografiche e televisive, alloggi, attività professionali scientifiche e tecniche,  elettronica, computer, elettromedicali, commercio all’ingrosso. Dato da considerarsi basso (23,3%) per le imprese  di fornitura elettrica, gas, acqua, rifiuti, servizi fognari; (14,3%) per le imprese di raffinazione del petrolio, prodotti chimici ecc.
- Area vendita on line: (aziende che hanno investito 11,4%) sopra il 50% le attività editoriali e alloggio. Il commercio all’ingrosso e al dettaglio sono sul 15%, dato piuttosto basso.
- Area Big Data Analytics: (aziende che hanno investito 4,9%) attività editoriali, telecomunicazioni e informatica circa al 20%.

Le imprese italiane negli anni di riferimento hanno identificato delle priorità:
- il valore degli sgravi fiscali e gli aiuti (48,5%),
- la copertura internet (30,8%),
- la sicurezza informatica,
- la visibilità su social e web ai fini commerciali,
- le tecnologie finalizzate agli assetti organizzativi Erp e Crm.

Potremmo dire tutti elementi e strumenti basilari per gestire processi classici delle imprese.

Il punto nodale è che il grosso degli investimenti non sono stati utilizzati per tecnologie altamente abilitanti; lo dimostra la scarsa crescita degli strumenti digitali più performanti e che avrebbero potuto contribuire a realizzare un balzo tecnologico, produttivo e occupazionale in molti settori. Industria 4.0, di fatto, è stata utilizzata più che altro per risparmiare sul “cambio macchina” e per ammodernamento dei sistemi preesistenti.

A questo si aggiunge che i settori con minori investimenti in tecnologie abilitanti sono quelli con forte presenza del Pubblico (fornitura elettrica, gas, acqua, rifiuti, servizi fognari). Ambiti in realtà in cui una profonda innovazione tecnologica (IoT, Analisi big data, cloud computing e IA) sarebbero indispensabili per ridurre sprechi, migliorare servizi, ridurre impatti sull’ambiente, calmierare costi delle utenze.

Preoccupante è anche lo stato del commercio all’ingrosso e al dettaglio, che vede scarse dotazioni in infrastrutture digitali, scarsa propensione all’utilizzo degli strumenti per la vendita on line, di cloud computing, di strumenti di gestione e di analisi dei dati, in un campo in cui la concorrenza è fatta dai colossi del commercio digitale che grazie all’utilizzo di queste tecnologie stanno consolidando una posizione dominante talvolta vicino al monopolio.

Gli ambiti in cui si riscontra un maggiore avanzamento tecnologico sono quelli in cui le imprese straniere, in particolare le multinazionali, hanno imposto un modello produttivo e commerciale tecnologicamente più performante: attività editoriale, per alcuni aspetti la produzione cinematografica e televisiva, le telecomunicazioni, il settore Ict, la produzione di computer, elettronica e apparecchiature elettromedicali, alloggi (alberghi ecc).

Anche il dato di analisi dell’Istat, potremmo dire, non è esattamente al passo con le esigenze tecnologiche. Infatti nel quadro disegnato dall’istituto mancano tecnologie rilevanti come l’Intelligenza Artificiale e le blockchain, elemento che rafforza l’idea che non si sia realmente compreso quanto il sistema produttivo stia cambiando e quali siano gli strumenti essenziali per sviluppo e competitività.

Non ci stupiamo nel notare che i misuratori che identificano il tema lavoro (occupazione e formazione) in ambito digitale sono i fanalini di coda del report statistico:
- Le imprese che hanno assunto o provato ad assumere specialisti Ict sono solo il 6,4%.
- Solo una parte minoritaria delle imprese investe in processi formativi del personale (19,4%), ma lo fa puntando principalmente sul personale già specializzato (16,3%).

Se questi sono i termini quantitativi è evidente come l’efficacia sul dato occupazionale o di sviluppo professionale sia veramente residuale.

Questo è lo stato dell’arte nonostante tutti i governi, anno dopo anno, abbiano ridotto i costi per le imprese e puntato sulla svalutazione competitiva, a partire dal costo del lavoro e dal peso del fisco. Questo tipo di politiche, funzionali all’obiettivo di una crescita mirata verso le esportazioni, sono state in linea con la direzione neoliberista dell’austerità propugnata anche dalle istituzioni europee e internazionali. È quindi il pensiero di fondo ad essere sbagliato. Pensare che lo sviluppo possa essere guidato dal mercato, anche “indirizzato” da incentivi, ha dimostrato di essere insufficiente.

Il pesante intervento di sostegno alle imprese degli ultimi anni, possiamo sostenere dati alla mano, non è riuscito a spingere la crescita del nostro Paese al livello dei nostri competitor, né al livello medio Ue. Il principale limite di queste (costose) politiche riguarda gli effetti sul sistema. Non tanto perché la messa in campo di una tale mole di risorse non abbia prodotto effetti di alcun tipo, quanto invece per la reversibilità di alcuni di essi (l’incremento dei posti di lavoro senza tutela si “sgonfia” con la fine degli incentivi) e perché alcuni interventi di sussidio al sistema delle imprese hanno di fatto assecondato decisioni già prese e si sono risolti in una riduzione di costi già preventivati. Su tale ultima casistica convergono anche le dimostrazioni empiriche pubblicate nel novembre 2020 (Ricci e Brunetti) secondo le quali ben il 60% delle imprese che hanno ricevuto incentivi avrebbero assunto e/o investito anche in assenza degli incentivi stessi.

Gli incentivi “parzialmente” selettivi di industria 4.0 dunque palesano il difetto della mancanza di una guida pubblica che non si limiti ad elencare i settori di sviluppo e le tecnologie abilitanti, ma che intervenga direttamente e che attraverso gli investimenti pubblici guidi gli investimenti privati.

Per rilevare l’errore di fondo perpetrato dal progetto basta rileggersi oggi, con l’occhio di chi ha vissuto pandemia e accelerazione forzata dei processi di digitalizzazione, le Linee Guida del governo di Industria 4.0:
- coordinare i principali stakeholder senza ricoprire un ruolo dirigista
- intervenire con azioni orizzontali e non verticali o settoriali.

Due principi, questi, che non hanno consentito d’indirizzare le politiche industriali ed economiche riducendo un progetto ambizioso, a sostegno della transizione digitale e della modernizzazione del Paese, in una distribuzione di risorse alle imprese. Questa impostazione, alla luce dei risultati emersi (l’acuirsi della crisi economica e sociale), in un quadro di rivoluzione digitale inarrestabile e pervasiva, va assolutamente superata nella pianificazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

È indispensabile che l’intervento pubblico si concretizzi anche in infrastrutture sociali, potenziamento delle competenze diffuse, guida delle politiche economiche anche attraverso le imprese a governance pubblica.

* link dati Istat 2017/18 http://dati.istat.it/Index.aspx?QueryId=24856