Qui di seguito un ampio stralcio dell’articolo di Maria Concetta Ambra pubblicato nel n. 3-4/2020 dei Quaderni di Rassegna Sindacale (Futura-Editrice), dedicato al tema de “Il lavoro davanti alla pandemia”

Durante il periodo di emergenza il governo, ricorrendo all’emanazione di diversi Dpcm, ha imposto l’immediata attivazione del lavoro agile, derogando all’obbligo di sottoscrivere l’accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore previsto dalla legge 81 del 2017. Un primo chiarimento necessario riguarda il tipo di lavoro che è stato svolto a distanza negli ultimi mesi. È infatti importante stabilire con chiarezza di cosa stiamo parlando quando ci riferiamo allo smart working o al lavoro agile o al telelavoro, sia in termini normativi che organizzativi.

In effetti nonostante nei già citati Dpcm si faccia riferimento al lavoro agile, il lavoro svolto a distanza ha invece assunto più le caratteristiche del telelavoro, poiché esso è stato costretto obbligatoriamente dentro le mura domestiche e condotto regolarmente fuori dai luoghi di lavoro. Potremmo quindi parlare di “telelavoro coatto”.

Il sociologo De Masi, che più di tutti e per anni ha predicato la necessità del passaggio al telelavoro nella società post-industriale (1993), ha recentemente sottolineato (2020) che l’emergenza della pandemia si è trasformata nel “più vasto esperimento di telelavoro nel mondo”, spingendo milioni di lavoratori a ricorrere forzatamente al telelavoro di massa. In Italia, secondo alcune stime, il numero degli smart workers sarebbe quindi passato da circa 570 mila nel 2019 a circa 8 milioni durante il lockdown.

Per comprendere cosa è cambiato concretamente è utile fare riferimento ai principali risultati delle ricerche che sono state effettuate durante e subito dopo il periodo di confinamento (Fondazione Di Vittorio 2020; Carrieri e Damiano 2021). La prima indagine di Cgil e Fondazione Di Vittorio sullo smart working condotta durante il lockdown e resa pubblica il 18 maggio 2020 ci permette di approfondire le caratteristiche del lavoro svolto a distanza e le sue modalità di attivazione.

Un primo dato è relativo all’altissima percentuale di rispondenti (circa l’82%) che ha cominciato a lavorare da casa con l’emergenza (contro solo il 18% che aveva iniziato prima). In merito alle modalità di attivazione del lavoro a distanza, i dati mostrano che per il 37% dei casi esso è stato avviato in modo concordato con il datore di lavoro e per il 36% ciò è avvenuto in modo unilaterale su richiesta del datore di lavoro. Solo per il 27% è intervenuto il sindacato ricorrendo alle modalità negoziate.

Per quanto riguarda la percezione positiva e negativa di questa modalità di lavoro, circa il 94% ha considerato con favore diversi aspetti, tra cui il risparmio dei tempi di pendolarismo casa-lavoro, la riduzione dello stress lavoro-correlato, la maggiore flessibilità nel lavoro, l’efficacia del lavoro per obiettivi e dell’organizzazione dei tempi e il miglior bilanciamento dei tempi di vita e di lavoro.

Invece tra gli aspetti negativi la maggioranza ha posto l’attenzione sulle minori occasioni di confronto e di scambio con i colleghi e ben il 71% sull’aumento dei carichi familiari. Va aggiunto inoltre che le donne hanno giudicato questa modalità di lavoro più pesante, complicata, alienante e stressante, mentre per gli uomini essa è stata stimolante e soddisfacente.

Un’indagine successiva al periodo di lockdown, condotta da Carrieri e Damiano (2021), mette a fuoco ulteriori questioni. In primo luogo ridimensiona la percentuale di smart workers. Infatti nei mesi dell’emergenza solo una minoranza del 25% ha effettivamente svolto lavoro agile o smart working, continuando a operare in parte da casa e in parte dai luoghi di lavoro, mentre la maggioranza, circa il 40% degli intervistati (sia dipendenti che autonomi) si è vista costretta a una forma di “telelavoro coatto”, poiché ha dovuto lavorare regolarmente e costantemente da casa. In secondo luogo la rilevazione mostra che la maggioranza dei lavoratori ha dovuto operare con mezzi propri, contro solo il 23% che ha potuto fruire degli strumenti messi a disposizione dal datore di lavoro.

Nel concludere questa analisi relativa ai cambiamenti verificatisi nel lavoro a distanza durante l’emergenza, un altro aspetto rilevante che merita attenzione è la formazione. La legislazione italiana ha sempre attribuito un ruolo cruciale all’obbligo di formazione dei dipendenti sui temi relativi alla salute e sicurezza del lavoro. Anche nel telelavoro, il datore di lavoro è tenuto a garantire tale formazione e a prevedere una formazione aggiuntiva e specifica sugli strumenti tecnici di lavoro e sulla sua organizzazione a distanza. Durante l’emergenza invece la formazione è stata decisamente posta in secondo piano.

Il 14 marzo 2020 governo e parti sociali siglano un protocollo condiviso che sancisce l’annullamento della formazione obbligatoria, sia quella in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sia quella professionale e/o abilitante, sostituendo entrambe “laddove possibile” con la formazione a distanza. Il protocollo condiviso specifica inoltre che “il mancato completamento entro i termini previsti per tutti i ruoli/funzioni aziendali, dovuto all’emergenza in corso e quindi per causa di forza maggiore, non comporta l’impossibilità a continuare lo svolgimento dello specifico ruolo/funzione”.

Il possibile ruolo dei sindacati nella fase post emergenza

Il 24 settembre 2020 la ministra del Lavoro e delle Politiche sociali Nunzia Catalfo si confronta con le parti sociali in una prima riunione in videoconferenza per decidere come intervenire alla fine dello stato d’emergenza, se attraverso un nuovo intervento legislativo oppure, come sembrano preferire in modo unanime i sindacati, attraverso un accordo tra le parti che rimandi ai contratti collettivi.

Al di là di come si sceglierà di procedere, se si vuole anche solo immaginare una sua prolungata ed estesa applicazione, è necessario un generale ripensamento di questa modalità di lavoro a distanza, a partire da quelli che sono a nostro avviso i nodi ancora irrisolti. Uno dei primi, forse il più importante, di cui le organizzazioni di rappresentanza dovranno farsi promotrici riguarda la definizione dei risultati del lavoro disancorati dai luoghi, ma soprattutto dai tempi di lavoro. È questo uno dei temi più problematici.

Se infatti sinora gli obiettivi di lavoro da raggiungere sono stati definiti esclusivamente da datori di lavoro e manager, per procedere in direzione della più ampia adesione al lavoro a distanza, non basterà, come ritiene De Masi (2020), “cambiare la testa dei manager”, o come sostiene Butera (2020) adottare “una nuova organizzazione del lavoro e una nuova cultura del lavoro”, ma saranno necessarie nuove regole condivise tra lavoratori e manager.

Va sottolineato infatti che se la definizione dei risultati da raggiungere può certamente essere disancorata dal rispetto di orari di lavoro rigidamente stabiliti, essa però non può essere sganciata dai tempi di lavoro, ovvero dalla quantificazione del tempo necessario a portare a termine un obiettivo di lavoro prestabilito. In caso contrario, anche le proposte più innovative dei sindacati, come quella di promuovere una riduzione delle ore di lavoro a parità di salario, avanzata dal segretario generale della Uil Pierpaolo Bombardieri, potrebbero produrre l’effetto negativo di aumentare i ritmi di lavoro.

Proprio su questo punto potrebbe aprirsi un nuovo e importante ruolo per le organizzazioni sindacali e datoriali nel definire di comune accordo quali siano i giusti tempi di lavoro retribuiti per ottenere determinati risultati produttivi. Non solo: i sindacati potranno intermediare le esigenze e i bisogni dei lavoratori dipendenti, non solo se saranno in grado di trovare soluzioni adeguate ai problemi legati alla sfera produttiva del lavoro, ma se sapranno tenere presente al contempo anche la sfera riproduttiva, ovvero quella che più comunemente si riferisce alla conciliazione dei tempi di lavoro con i tempi di vita e di cura. Si tratta di un tema che – va sottolineato – non può più essere declinato solo al femminile, ma che riguarda tutti i lavoratori.

I sindacati dovranno poi fare i conti anche con un altro problema sinora poco considerato. Questa sorta di telelavoro coatto, non ha coinvolto soltanto i lavoratori subordinati, ma anche gli autonomi e i liberi professionisti. Si tratta di un ampio e variegato bacino di lavoratori non intercettati, né rappresentati dai sindacati tradizionali e che, tra l’altro, sono sprovvisti delle tutele sociali previste per i dipendenti.

In prima battuta tale questione può sembrare fuori dalla competenza e dall’interesse dei sindacati dei lavoratori, è invece interessante sottolineare come i sindacati siano diventati negli ultimi anni più recettivi nei confronti di questo eterogeneo gruppo di lavoratori e in particolare delle sue fasce più deboli (false partite Iva, collaboratori a progetto). Non sorprende quindi che recentemente il segretario della Cgil Maurizio Landini, commentando i dati della ricerca sullo smart working condotta da Cgil e Fondazione Di Vittorio (2020), abbia rilanciato la proposta di una nuova carta dei diritti per tutti i lavoratori, a prescindere dal tipo di contratto di lavoro.

Landini ha inoltre ribadito la necessità di introdurre con urgenza nuovi ammortizzatori sociali universali, in modo da sganciare le tutele sociali esistenti dal lavoro subordinato e renderle accessibili a tutti.

Dal telelavoro coatto al lavoro ubiquo

Il percorso di adozione dello smart working in Italia è stato segnato da due importanti fasi di passaggio. La prima: dalla sperimentazione per iniziativa di alcune grandi imprese che l’hanno negoziata con i sindacati, all’implementazione del lavoro agile, in seguito all’introduzione della legge 81 del 2017, che ne ha vincolato l’attivazione alla sottoscrizione di un accordo individuale tra datore di lavoro e dipendente.

Il secondo passaggio si è verificato tra febbraio e marzo 2020, nel momento in cui il governo, a causa dell’emergenza legata alla diffusione del Covid-19, ha derogato all’obbligo di sottoscrizione del contratto individuale, allo scopo di mettere in atto tutte le misure possibili per far fronte all’epidemia.

Questi cambiamenti si sono verificati in tempi e modi diversi e hanno anche prodotto esiti differenti. Nel primo caso infatti i lavoratori coinvolti sono stati pochi, circa 570 mila dipendenti. Diverse analisi di giuristi, integrate dalle evidenze empiriche emergenti dagli studi di caso Intesa San Paolo e Tim hanno evidenziato diverse criticità. Tra gli aspetti problematici si sottolinea il tema del controllo datoriale a distanza; l’esercizio del potere sanzionatorio nei confronti dei dipendenti; il rischio di autosfruttamento da parte dei lavoratori a causa dell’ibridazione dei confini del tempo di lavoro e di vita; il diritto alla disconnessione.

Nel secondo caso, invece, il passaggio al “telelavoro coatto” durante il confinamento è stato imposto a circa 8 milioni di dipendenti. I risultati delle più recenti ricerche condotte durante l’emergenza (Fondazione Di Vittorio 2020; Carrieri e Damiano 2021) hanno messo in evidenza alcune criticità inedite, tra cui la percezione dei dipendenti di un aumento dei carichi di lavoro.

Sintetizzando tutti gli aspetti “regolabili” attraverso le relazioni industriali, attribuendo alle parti sociali il compito di definire nuove regole condivise tra lavoratori e manager, il tema che appare più rilevante riguarda la necessità che le organizzazioni sindacali e datoriali concordino sulle modalità con cui definire i risultati attesi dal lavoro svolto dai dipendenti.

Altri aspetti che meritano di non essere sottovalutati o trascurati sono quelli relativi ai diritti e alle tutele dei lavoratori, siano essi dipendenti o autonomi, tra cui l’obbligo alla formazione, e in particolare quella legata ai temi della salute e sicurezza nello svolgimento del proprio lavoro (sia in presenza che a distanza).

Se le organizzazioni sindacali e datoriali riusciranno a regolare adeguatamente questi aspetti, riguardanti non solo la sfera produttiva, ma anche quella riproduttiva, con importanti ricadute sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per tutti i lavoratori, saranno in grado di confermare l’importanza del loro ruolo e potranno facilitare l’adozione di queste nuove forme di lavoro da remoto al termine della fase emergenziale.

Di certo un’eventuale regolazione potrebbe favorire l’ulteriore passaggio dal “telelavoro coatto” al “lavoro ubiquo”, come lo ha definito Butera (2020). Questa suggestiva proposta si riferisce alla possibilità di svolgere il lavoro a distanza, a partire da molteplici spazi, dislocati in vari luoghi delle città e appositamente dotati di tutti gli strumenti necessari.

In questa direzione, si potrebbe individuare anche una nuova frontiera di misure di supporto pubblico rivolte a tutti i lavoratori, quali l’assegnazione di postazioni gratuite di prossimità e dotate di tutti gli strumenti necessari per lavorare a distanza. In questo modo sarebbe possibile creare luoghi di lavoro alternativi (come i già esistenti co-working), con orari aperti e modulabili in base alle diverse esigenze lavorative, nei quali sia i lavoratori dipendenti, sia gli autonomi e i liberi professionisti, possano scegliere di lavorare a distanza.

Maria Concetta Ambra è post doc researcher presso il Dipartimento di Scienze sociali ed economiche alla Sapienza Università di Roma

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