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Dopo settimane di silenzio monacale, Giorgia Meloni è finalmente uscita allo scoperto. Durante la cerimonia della Festa della Repubblica, ha svelato il mistero attorno ai referendum dell’8 e 9 giugno: “Vado a votare, ma non ritiro la scheda”, ha sentenziato ai cronisti curiosi, in un trionfo del miglior cerchiobottismo italico. L’equivalente politico del “esco ma non mi diverto” o del “ti amo ma è complicato”.
Non esprime un’opinione la Nostra, non dice un sì, non osa un no. Va al seggio ma non si sa perché. Non ritira la scheda, forse neanche saluta. È presente ma sfuggente. C’è, ma non disturba. Un’apparizione più che una posizione. E così, da premier del popolo fiero e deciso, si è fatta sacerdotessa del vago e dell’incomprensibile.
Un tempo era diverso. Pasionaria della trasparenza, quella che “non ho paura di dire quel che penso”. Oggi invece si mimetizza nella nebbia del non voto. Sulla precarietà, sul reintegro dei lavoratori, sulla cittadinanza: silenzio stampa. Il suo atto politico più evidente è la sottrazione, togliere senso alle parole, peso alle scelte, sostanza alla leadership.
Meloni ha costruito un meccanismo comunicativo infallibile: parla anche quando tace. Il suo “mi reco al seggio ma non voto” è un capolavoro paraculinguistico. Così ognuno ci vede ciò che vuole: chi il coraggio sobrio della statista, chi la solita furbizia d’ordinanza. Intanto la premier delle crociate si ricicla come premier delle opzioni.
Se il dito è negli occhi degli italiani, la luna è che il governo considera la partecipazione un inciampo e il referendum un inciucio di sinistra da sabotare con eleganza. Ma la democrazia non è un atto di presenza, né un esercizio di stile. È scegliere, esporsi, rischiare. E se una premier preferisce restare in equilibrio sul nulla allora ha già scelto. Ha scelto se stessa e non il popolo che dice di rappresentare.