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A volte l’ascensore sociale funziona, basta salire in banca. Prendi un dirigente qualsiasi, mettilo comodo, versagli un caffè freddo in una tazzina da 20.000 euro lordi e digli che è meritocrazia. Il suo stipendio passa da 65.000 a 85.000 euro come se niente fosse, con l’eleganza di un bonifico e il consenso silenzioso di chi ha già firmato prima ancora di leggere.
Poi c’è l’altra metà del Paese, quella col badge sporco e la tuta lisa. I metalmeccanici, avete presente? Loro non salgono, loro resistono. La loro busta paga non cresce, si rattrappisce. La trattativa per il contratto è ripresa, dopo otto mesi di silenzio e quaranta ore di sciopero, come se la dignità fosse un optional da discutere a rate. A loro il 31% glielo danno, sì, ma di inflazione sul carrello della spesa.
Due mondi che non si parlano, due scale mobili dirette in direzioni opposte. Ai piani alti si celebrano gli aumenti con flûte di Prosecco e discorsi sulla competitività. Ai piani bassi si scaldano i termos con le minestre riscaldate delle promesse padronali. E se i secondi scioperano, diventano un problema di ordine pubblico per il Paese. Se i primi incassano, sono un modello da imitare.
La verità è che in Italia il salario non è un diritto, è un favore. Se stai sotto, devi dimostrare di valere. Se stai sopra, devi solo respirare. Ogni euro ai lavoratori è una spesa. Ogni euro ai manager è un investimento. Chi produce viene interrogato, chi dirige viene applaudito. Con buona pace della logica e dei calli sulle mani.
Ma va tutto bene. Finché gli operai chiedono giustizia e i banchieri ottengono aumenti, il sistema funziona perfettamente. Sbilanciato, certo, ma coerente. Il messaggio è chiaro: non contate su un futuro, contate i giorni allo sciopero. E portatevi l’ombrello, perché piove sempre sul turno di notte.