Alla Rai dev’essere scoppiata la sindrome del Truman Show. Tutto deve apparire lindo, neutro, asettico, apolitico. Guai se il fonico ha una tessera sindacale in tasca o il cameraman simpatizza per un comitato referendario: fuori dallo studio e possibilmente anche dal Paese. Non sia mai che l’inquadratura di un microfono venga contaminata da un’idea.

Così, in un capolavoro di comicità involontaria e distorsione democratica, arriva la circolare dell’anno firmata dalla Direzione generale di viale Mazzini: chiunque osi avere un pensiero – peggio ancora, chi lo esprima pubblicamente – deve “astenersi dal lavoro”. Niente part-time del dissenso solo ferie forzate o aspettativa. Il pensiero critico va tenuto fuori dal set, come un virus pericoloso.

Per fortuna la giudice di Busto Arsizio non ambiva a un ruolo in questa tragicommedia. Ha letto il copione e l’ha bollato per quello che è: “discriminatorio”. Perché no, non si può ridurre al silenzio chi lavora dietro le quinte. A meno che non si abbia davvero paura che le luci di scena trasmettano segnali sovversivi in codice morse.

E così il servizio pubblico si trasforma in un varietà autoritario, dove la censura preventiva è l’unico contenuto editoriale. Guai che un truccatore progressista influenzi la piega di un ciuffo ribelle o che un elettricista con la Costituzione nel taschino accenda la luce sbagliata. Meglio tenerli lontani: muti, invisibili e, se possibile, anche disoccupati. Tutto in nome dell’ordine e della sacra neutralità, purché monocorde.

Del resto, si sa, l’unica opinione tollerata in mamma Rai è quella che non incrina la linea. E il dipendente ideale è muto, reversibile e a chiamata. La democrazia è salva, certo, basta non prenderla sul serio. E soprattutto non farla entrare in uno studio televisivo.