Da quando è salita al trono, Giorgia Meloni vive in un’eterna Via Crucis mediatica. La croce cambia forma continuamente. Un giorno ha le sembianze dei giornalisti che osano fare domande, un altro dei sindacati che scioperano, il successivo dell’opposizione che si ostina a esistere. La premier si difende con lo sguardo dell’agnello e la voce della leonessa, oscillando tra l’autocommiserazione e l’orgoglio nazionale, come una Giovanna d’Arco del consenso.

Il suo governo ha trasformato la comunicazione politica in un una soap lacrimosa, dove l’applausometro misura la fedeltà. Ogni critica è una pugnalata alla Nazione, ogni domanda un affronto alla verità. Meloni piange di giorno e rivendica di notte, rivestendo il potere con il velluto del martirio. E mentre finge di difendersi, attacca con chirurgica dolcezza, lasciando a chi la critica il ruolo ingrato del carnefice.

Nel suo rosario quotidiano non ci sono misteri, solo litanie. “Ce l’hanno con me”, “mi trattano male”, “vogliono destabilizzare l’Italia”. Il lamento diventa strumento di governo, la vittima un modello di leadership. Il problema è che, a furia di sentirla piagnucolare, si rischia di dimenticare chi comanda davvero. Perché chi occupa Palazzo Chigi non è un bersaglio, è un decisore.

Ma il vittimismo, si sa, è il deodorante preferito del potere: copre l’odore acre delle responsabilità. Però dura poco. Prima o poi anche i cittadini, stanchi di questa telenovela della commozione, capiranno che il pianto non paga la spesa e che dietro ogni singhiozzo di palazzo si nasconde un sorriso di bilancio.

Forse la vera rivoluzione sarebbe una premier capace di esercitare la responsabilità senza travestirla da persecuzione. Ma Meloni sembra preferire il ruolo di protagonista offesa, monarca del risentimento permanente. Un Paese intero costretto ad applaudire per non essere accusato di tramare contro la sua regina donna, madre, cristiana e pure parecchio permalosa.