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Ci hanno detto che eravamo pigri, vecchi, attaccati a un’idea novecentesca del lavoro. Ci hanno detto che bisognava “modernizzare”, “snellire”, “semplificare”. Tradotto: licenziare. E magari pagare pure poco il danno. Sei mensilità, non una in più, anche se ti hanno buttato fuori come un sacco della spazzatura. Questo era il tetto. Ora, per fortuna, la Consulta ci ha messo sopra il tetto del tetto. E l’ha demolito.
Dieci anni di Jobs Act e decreti padronali per scoprire che licenziare ingiustamente un lavoratore non può costare quanto un abbonamento annuale alla palestra. Sei mensilità erano una mancia, non un risarcimento. Ma guai a dirlo, perché sennò piangeva il piccolo imprenditore, povera anima, oppresso da costi insostenibili.
E ora? Ora si scopre che aveva ragione la Cgil. Non i ministri col ditino alzato, non i tecnici con la calcolatrice del capitale, non gli editorialisti col cuore in outsourcing. Ma chi il referendum l’aveva proposto, firmato, difeso. Referendum che è morto sotto l’astensione, ma che oggi risorge sotto forma di sentenza.
Adesso tutti parlano di “vuoto normativo”. Ma il vuoto, fino a ieri, era morale. Era l’accettazione silenziosa di una porcata firmata dallo Stato e timbrata dalle imprese. Nessuno ha avuto il coraggio di cancellarla. Ora lo fa un giudice. Uno solo, ma basta. Basta per dire che il tempo delle pacche sulle spalle e dei licenziamenti low cost è finito.
È il momento di alzare la voce. Il lavoro non è uno scarto industriale. Chi ha scritto leggi disumane, chi ha votato per renderle eterne, chi ha affossato i referendum con il silenzio, oggi dovrebbe solo chiedere scusa. Ma non lo farà. E allora lo facciamo noi: ce li riprendiamo, uno a uno, i diritti. Anche a colpi di sentenza. Anche sputando sangue.