Le ferie finiscono e l’Italia rientra al lavoro. Ma qualcuno, come sempre, dal lavoro non torna. Quattro operai morti in un solo giorno: a Monza, a Catania, a Torino, a Roma. Un bollettino che ormai non ha più nulla di eccezionale, se non l’indifferenza che lo avvolge. Perché la catena di montaggio delle stragi sul lavoro non si ferma mai: ingrassata da appalti al ribasso, turni infiniti e controlli ridotti a orpello burocratico.

È come se la morte fosse entrata a far parte del contratto, una clausola scritta in corpo minuscolo che tutti fingono di non leggere. Il ministro di turno recita le condoglianze di rito, i titoli dei giornali evaporano in ventiquattr’ore, e intanto si continua a lavorare “come se”. Come se fosse normale uscire di casa al mattino e rischiare di non rientrare.

Tre operai al giorno non tolgono il padrone di torno. Anzi, lo rassicurano: il sistema regge, il sangue è silenzioso, i corpi cadono senza rumore, e le fabbriche, i cantieri, i magazzini riprendono a girare. Con più profitto e meno sicurezza, perché la sicurezza costa, mentre la vita – a quanto pare – no.

È la pedagogia del sacrificio: ci spiegano che bisogna stringere la cinghia, accettare precarietà, ritmi da bestie, salari da fame. E quando qualcuno muore, ci raccontano che “era destino”, “una fatalità”. Fatalità è la parola magica che cancella le responsabilità, lava le mani, mette a tacere la coscienza.

Eppure di destino qui non c’è nulla. C’è una scelta politica precisa: fare della vita dei lavoratori materiale di scarto. E se il primo lunedì dopo le vacanze inaugura già quattro funerali, vuol dire che l’autunno promette bene. Bene per chi specula, non certo per chi lavora.