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Siamo un Paese dove la metà della popolazione galleggia come zavorra fiscale e l’altra metà regge la baracca a mani nude, sudando Irpef come fosse acqua santa. E mentre 11 milioni e spiccioli mantengono il resto della truppa, i convegni si sprecano per spiegare l’ovvio: chi paga davvero è una minoranza. Applausi, grafici e la solita aria da scienziati pazzi.
Lo slogan retorico è servito: “Meno evasione, più equità”. Pronunciato con il tono ieratico di chi recita un vangelo laico, quando poi l’evasore è sempre l’altro, il vicino, l’idraulico. Così l’Italia si risveglia ogni anno con la stessa parabola in cui i furbi ridono e i fessi finanziano il welfare, la scuola, perfino la benzina del ministro in tournée.
Il ceto medio, quello che paga davvero, viene raccontato come martire volontario. In realtà è un condannato a lavoro forzato: non abbastanza ricco da svicolare, troppo ordinario per sparire nei rivoli dell’economia in nero. E mentre si logora sotto il peso di aliquote e detrazioni degne di un sudoku giapponese, gli si chiede pure di sorridere. Patriottico.
Il dato più gustoso non è che quasi metà degli italiani non versi un euro, ma che la politica continui a coccolare proprio quel blocco improduttivo: platee da bonus, clientele elettorali, truppe da mantenere. A chi produce si chiede fedeltà fiscale, a chi non produce si promette protezione. Un baratto che si chiama consenso.
E così, alla vigilia della legge di bilancio, il nostro Paese si conferma laboratorio di un socialismo al contrario: i poveri mantengono i poverissimi, i mediocri reggono l’impalcatura e i ricchi veri osservano sorridendo dall’attico, spesso con le tasse già emigrate altrove. Il tutto condito dalla solita favoletta del “siamo tutti sulla stessa barca”. Peccato che alcuni remano mentre altri prendono il sole.