La Commissione Ue ha smontato un altro pilastro del green deal cancellando il divieto di produrre auto con motori endotermici, previsto per il 2035. L’ennesima schiacciante vittoria della “neutralità tecnologica”, a scapito degli impegni di riduzione delle emissioni del 55% al 2030 e del 90% al 2040 e della neutralità climatica al 2050.

La Commissione anche in questo caso ha scelto di abbandonare l’ambizione climatica, come fatto già con altri recenti provvedimenti, e ha assecondato le pressioni di Italia e Germania e le richieste di un’industria automobilistica gravemente in crisi, che non ha investito negli anni in ricerca, sviluppo e innovazione tecnologica; che non è in grado di competere a livello globale nel mercato in netta crescita dell’auto elettrica, dominato dalla Cina, e pensa di salvarsi, o almeno di sopravvivere per qualche altro anno, ritardando la transizione verso l’elettrico.

I testi del pacchetto automobilistico presentato il 16 dicembre dalla Commissione non sono ancora stati pubblicati, ma quello che si può leggere sul sito della Commissione desta più di una preoccupazione. Saltato il divieto sul motore endotermico, le case automobilistiche dovranno rispettare un obiettivo di riduzione delle emissioni allo scarico del 90% al 2035 e le restanti emissioni del 10% dovranno essere compensate con l'uso di acciaio a basse emissioni di carbonio prodotto nell'Unione o con carburanti elettronici e biocarburanti.

Ci saranno adeguati controlli sul rispetto dei target ambientali e di sicurezza? È più che lecito avere dei dubbi, visto che il pacchetto contiene anche un Omnibus (semplificazioni nel settore automobilistico) che promette di alleggerire gli oneri amministrativi, riducendo di 706 milioni di euro all’anno i costi dei produttori europei, rafforzandone la competitività e liberando risorse per la decarbonizzazione. Fra le semplificazioni anche quelle relative alle prove per i nuovi furgoni e autocarri per passeggeri e l’introduzione di una nuova categoria di veicoli, le Small Affordable Cars, veicoli elettrici fino a 4,2 metri di lunghezza che potranno ricevere incentivi mirati per stimolare la domanda di veicoli elettrici “di piccola dimensione”, prodotti nell’Ue.

Viene abbassato l’obiettivo di riduzione delle emissioni al 2030 per il segmento dei furgoni, che scende dal 50% al 40%, e introdotta una, non meglio specificata, flessibilità delle norme in materia di emissioni di CO2 per i veicoli pesanti per facilitare il rispetto degli obiettivi al 2030. Nessun cenno ad eventuali sanzioni in caso di mancato rispetto dei vincoli del 90% o del 10%.

Le disposizioni per il sostegno della domanda e dell’offerta dell’elettrico sono inadeguate: 1,8 miliardi di euro per il Battery Booster, un sostegno per lo sviluppo di una catena del valore delle batterie interamente realizzata nell’Ue, il richiamo a vaghi obiettivi obbligatori a livello degli Stati membri per sostenere la diffusione dei veicoli a zero e a basse emissioni nelle flotte aziendali delle grandi imprese, senza specificare qual è la misura di questi obiettivi, e all’introduzione di nuove misure per equiparare i furgoni elettrici ai furgoni a combustione interna per quanto riguarda i tempi di riposo e le norme dei conducenti, anche qui senza nessun chiaro riferimento. Davvero poca cosa.

Per rilanciare la competitività del settore automotive, occorre innanzitutto recuperare il divario tecnologico, con forti investimenti in ricerca e sviluppo, quindi accelerare e non rallentare il processo verso l’elettrico. Servono politiche industriali pubbliche che indirizzino e sostengono le produzioni, a partire dalla domanda di veicoli elettrici per il Tpl e le pubbliche amministrazioni, garantendo la possibilità di accedere a veicoli elettrici, anche alle fasce più vulnerabili della popolazione e alle piccole e micro-imprese vulnerabili, attraverso per esempio il social leasing per auto e veicoli commerciali leggeri, la sharing mobility, il sostegno al mercato delle auto elettriche usate, il sostegno alla produzione di auto elettriche di piccola dimensione con costi accessibili, non per quelle fino a 4.2 metri come indica il nuovo pacchetto.

Il pacchetto automotive si inserisce in un percorso più complessivo di demolizione del green deal, fortemente spinto dal governo italiano e già soppiantato dalle nuove priorità comuni su difesa, riarmo, riconversione bellica. Prima dell’auto ci sono stati, fra l’altro, l’Omnibus ambiente, che ha esonerato oltre l’80% delle imprese dalla rendicontazione su emissioni climalteranti, consumo idrico e rispetto dei diritti umani nella catena delle forniture; la revisione del target di riduzione delle emissioni del 90% al 2040, introducendo flessibilità e revisioni; il rinvio di un anno dell’Ets 2 per abitazioni e trasporti e dei relativi fondo e piani sociali per il clima; la revisione del meccanismo di aggiustamento della CO2 alle frontiere (Cbam) e l’accordo sui dazi con Trump che impegna l’Ue ad acquistare 750 miliardi di dollari di Gnl, petrolio e combustibile nucleare nel triennio 2025-2027.

Oramai la presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen dice apertamente che non intende combattere i combustibili fossili ma le emissioni. È passata l’idea che tutte le tecnologie possono essere utilizzate per ridurre le emissioni, quella che viene definita “neutralità tecnologica” e che si può realisticamente tradurre false soluzioni, perché gas, Gnl, Ccs, nucleare, biocombustibili, idrogeno non ridurranno le emissioni nel rispetto dei target adottati e del vincolo di contenere l’incremento delle emissioni entro 1.5°C, non renderanno più competitive le imprese europee, non ridurranno i costi energetici e non ci garantiranno la sicurezza energetica. Servono solo a mantenere in vita un sistema fossile, estrattivo, colonialista e iniquo che distrugge la vita e la salute dell’ambiente e di tutti gli esseri viventi.

Quello di fare un passo indietro nel settore automotive, è una scelta irresponsabile sul piano climatico e strategicamente sbagliata, che fa perdere tempo prezioso e allargherà il vantaggio competitivo della Cina, mettendo a serio rischio i posti di lavoro del settore automotive. È solo l’ultimo tassello di una scelta folle che ci porta verso il baratro della guerra invece che sulla strada della pace, del disarmo, della sostenibilità, dell’equità.

Contemporaneamente espone il nostro sistema produttivo già ampiamente in crisi ad un ulteriore deindustrializzazione e alla perdita di occupazione. Il prossimo quadro finanziario pluriennale europeo non ci sarà neppure il Fondo per la giusta yransizione, che in forma sperimentale era stato adottato in alcuni territori, nella passata legislatura, per sostenere lavoratori e comunità nel processo di decarbonizzazione.

Come Cgil ci stiamo opponendo a queste politiche e rivendichiamo l’accelerazione di una giusta transizione che tenga insieme, pace, ambiente, piena occupazione. I nuovi investimenti devono andare all’efficienza energetica e alla produzione energetica da fonti rinnovabili, va pianificata l’uscita dalle fonti fossili, servono investimenti, infrastrutture e politiche industriali comuni, serve una direttiva sulla giusta transizione che anticipi e governi in modo democratico e partecipato le trasformazioni ecologiche e digitali garantendo, con adeguate risorse, creazione di nuova e buona occupazione, diritti del lavoro e delle comunità, compreso il diritto a non essere costretti ad abbandonare la propria terra. 

Simona Fabiani è responsabile Politiche per il clima, il territorio, l’ambiente e la giusta transizione Cgil nazionale