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Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Giulio Rosi, diciassette anni. Giulio racconta la tragedia del padre morto sul lavoro, nel 2019, operaio della Arvedi di Cremona: il vuoto di ogni giorno, la lotta in tribunale, il messaggio a tutti quelli nella sua stessa situazione per continuare a lottare. A lui lasciamo la parola.
Mi chiamo Giulio Rosi e sento il bisogno di raccontare la mia storia. Lo faccio non solo per me, ma per tutte le persone che vivono situazioni simili o ancora più difficili della mia: chi cresce senza genitori, senza una famiglia che lo sostenga, senza nessuno accanto.
Il 9 agosto 2019 ho perso mio papà, Alessandro, in un incidente sul lavoro all’acciaieria Arvedi di Cremona. Era un’occupazione che lui svolgeva da 19 anni: non è un lavoro che può fare chiunque, e lui lo faceva con dedizione e passione. È stato improvviso e devastante: 86 tonnellate sono scivolate sulla cabina dove stava operando, uccidendolo sul colpo. Avevo dieci anni. Da quel momento la mia vita non è più stata la stessa.
Nonostante il dolore, non sono completamente solo: ho mia mamma Paola, mia nonna Anna (la mamma di mio papà), tutta la mia famiglia e gli amici veri che mi sostengono ogni giorno. In tribunale vanno mamma e nonna al mio posto, perché affrontare tutto questo da solo sarebbe impossibile. Ogni volta che mi raccontano cosa succede in aula, dentro di me cresce una rabbia enorme, ma anche la voglia di continuare a lottare.
Poco fa c’è stata un’udienza. Il 12 dicembre abbiamo l’ultima udienza, con la discussione del caso, e si è messa la parola fine. Ma fine a cosa? Alla mia galera? E io mi chiedo: come si può restare calmi quando si perde un padre in quel modo? Come si può non provare rabbia, quando la vita di una persona sembra diventare solo un numero su un fascicolo?
Papà era il mio “gigante buono”. Non potrà diventare nonno, non ci sarà al mio diciottesimo compleanno, non vedrà i miei successi. Ma voglio renderlo orgoglioso, portando in alto il suo nome: gioco a calcio da quando avevo sei anni e ora sono in under 17 all’Arezzo come portiere. Al campo di casa lui faceva il “Del Piero della nazionale” e io il “Buffon della nazionale”.
Litigavamo molto per il calcio: lui tifoso sfegatato della Juventus, io della Fiorentina. Mi manca prenderci in giro per le partite, e soprattutto mi manca il mio tifoso numero uno sugli spalti. Ma, in un’altra maniera, so che lui ci sarà sempre.
Nonostante tutto, ho imparato qualcosa di fondamentale: la vita è fragile, imprevedibile, ma piena di persone e momenti che valgono la pena. Anche poche persone buone al tuo fianco possono fare una grande differenza.
Per questo voglio rivolgere un messaggio a tutti i ragazzi che si sentono soli: non arrendetevi. Io sono con voi, so che potete farcela. Fatevi aiutare dalle persone vere e sincere che avete accanto. Anche se sembrano poche, il loro affetto può fare la differenza. Non siete davvero soli.
Voglio usare la mia storia per chi è più solo di me: per chi non ha mamma, papà, nonni o amici pronti a proteggerlo. Io almeno ho delle persone al mio fianco. Voglio far sentire la mia voce anche per chi non ha nessuno: nessun ragazzo deve sentirsi senza speranza.
E mentre scrivo, babbo, mi rivolgo a te con il cuore aperto. Mi chiedo se mi guarderesti sorridendo dal cielo, tifando per me come facevi sulle tribune, se ti sentiresti orgoglioso dei miei successi, della mia passione e della mia forza. Vorrei sentire i tuoi consigli, quelli che mi daresti per non mollare mai, per affrontare la vita anche quando sembra impossibile. Mi manchi in ogni gesto, in ogni partita, ma so che ci sei ancora e ci sarai sempre.






















