Il kebab torna a far paura. Sfreccia da Atreju all’Aula di Montecitorio come una macchia sul tappeto buono, diventa parola chiave, clava retorica, perfetta distrazione stagionale. Mentre il carrello pesa come un mutuo e il frigo sbadiglia, si sceglie il bersaglio più facile. Il piatto sbagliato, meglio se straniero.

Dall’altra parte si incensa la cucina nostrana, appena assunta nel pantheon Unesco, si applaude il ragù come fosse Pil, si sventola la tradizione come lasciapassare morale. Giorgia Meloni assiste compiaciuta al rito, certa che l’identità basti a tappare i buchi del reddito. Fuori dal banchetto i prezzi galoppano, le buste si afflosciano, l’industria sparisce dal menu.

Denigrare il panino arrostito allo spiedo serve a questo. A deviare lo sguardo, a montare una guerra culturale mentre quella sociale azzanna le caviglie e risale. Il pranzo diventa identità, il disagio folklore, la povertà un vizio alimentare. Se mangi male è colpa tua, se paghi troppo sei pure ingrato.

Quando la premier dice che la sinistra mangia kebab, lancia una linea, non una battuta. Riduce il portafoglio a palato, la fatica a gusto personale. È politica da mensa, risata pronta e responsabilità lasciata sul vassoio sporco.

Resta l’indigestione. Non per il cibo, ma per il trucco. Qui si governa a slogan, si coprono i vuoti con le spezie, si dileggiano i gusti per evitare i numeri. Altro che Natale. È il cenone del cinismo, con applauso obbligatorio e conto finale salatissimo. Da pagare, come sempre, senza fiatare.