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Il potere ha un talento antico: travestire la paura da ordine pubblico. Lo si vede nelle schiere di troll arruolate come guardie pretoriane digitali, incaricate di sputare fango sui cortei per Gaza. La loro missione non è convincere, ma sporcare, ridurre una folla di corpi e idee a rumore di fondo, a un fastidio da silenziare con la stessa cura con cui si toglie la polvere dal salotto.
Eppure il fastidio resta. Perché centinaia di migliaia di giovani hanno invaso le strade con la semplicità e la radicalità che appartengono ai gesti elementari. Dire no al massacro, no all’indifferenza, no all’ipocrisia occidentale. E in questo coro l’Italia eccelle, ma nel ruolo di comparsa servile, applaudendo Israele mentre finge di stropicciarsi gli occhi commossi.
A questo punto arriva puntuale il teatrino: la stazione di Milano, il fuoco, gli scontri. Il governo, che già pregava in silenzio per un diversivo, riceve in dono la sua foglia di fico. Sessanta agenti feriti, un titolo perfetto per oscurare decine di piazze gremite. Gli autori? Un mistero destinato a restare tale, come da manuale delle democrazie zoppe. Agitatori senza volto, utili alibi per trasformare una rivolta civile in baruffa criminale.
Il problema non sono le molotov, ma la narrazione che da esse si nutre. Perché se basta un gruppo di facinorosi a far deragliare la protesta, allora si regala alle destre la chiave per blindare la libertà di parola. Ed è questo il punto, i nuovi inquisitori non temono la violenza, ma il dissenso. Hanno bisogno di ridurre la politica a ordine di polizia, a statistica di feriti, a cronaca nera.
Un corteo non è una rissa, una piazza non è un crimine. Eppure la recita ufficiale funziona, basta un vetro infranto per coprire migliaia di voci, basta una foto di fumo per annullare la sostanza. La menzogna non sta nelle strade, ma nei palazzi che raccontano la realtà come fosse un bollettino di guerra.