Dopo i David di Donatello, il ministro della Cultura Giuli, con più livore che visione, ha imbracciato l’arma preferita dei potenti insicuri: il vittimismo. Lamenta una “cultura di sinistra” che dominerebbe il cinema italiano. Tradotto dal vocabolario giulivo: non hanno vinto i nostri, dev’esserci sotto un complotto. Ma qui non è in discussione il pluralismo, bensì il controllo. Non si cerca talento, ma disciplina.

Altro che storie: si vorrebbero sermoni patriottici, eroi a prova di contraddizione, biopic stirati a dovere con l’amido tricolore. Una produzione artistica ridotta a catena di montaggio dell’ideologia: basso budget, massima fedeltà alla linea. Il vero problema non è “la sinistra”, ma la libertà. Quella cosa scomoda che racconta il disagio, l’ambiguità, le ferite della storia. Che dà voce a chi non ce l’ha, che non si allinea e non si addestra. E che per questo, ovviamente, dà fastidio.

Il ministro sbraita di egemonie perché non riesce a imporre la sua. Si atteggia a dissidente mentre siede al vertice. Si autoproclama censurato mentre firma bandi, fondi e nomine. Vorrebbe un’arte col bollino ministeriale ben visibile in locandina. Ma l’arte vera non si inginocchia, e infatti gli sfugge. Nel suo mondo ideale, ogni film dovrebbe rassicurare, mai disturbare. Narrare, non interrogare.

E invece, per fortuna, il cinema continua a fare ciò che deve: raccontare, scavare, infastidire. Senza permessi, senza padroni, senza bavagli. Chi sogna un’estetica a norma di decreto, finisce sempre per temere quella che respira. Ma la cultura, quando è viva, non si disciplina. Si sopporta. O si capisce. Ma zittirla, no: quello non riesce nemmeno al bravo ministro.