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Laura Santi ha chiesto ai parlamentari di essere umani. Ha sbagliato destinatario, povera illusa: chi passa le giornate a recitare monologhi vuoti tra i velluti di Montecitorio, tra un decreto sicurezza e un selfie alla buvette, non ha più nulla di umano se non il metabolismo. Il suo video-testamento è un’accusa precisa: non regolate il fine vita con l’ennesima legge ipocrita. Ma da noi il tema lo si affronta con la competenza dei sommelier alle prime armi, si annusa la tragedia da lontano e si gira lo sguardo con aria ispirata.
Non è che manchino i modelli. Ci sono leggi europee, sentenze della Consulta, proposte articolate. Ma il Parlamento italiano riesce nell’impresa titanica di produrre l’unico ddl sul fine vita che esclude chi soffre. Si regolamenta per non disturbare il manovratore, non per proteggere i fragili.
La morte va bene solo se elegante, sobria e benedetta. Se invece è autodeterminata è subito “deriva etica”. Nessuno vuole ammettere che la posta in gioco non è la vita ma il controllo. Controllo su chi può soffrire, su come e per quanto. Il dolore fa paura solo se prende parola. E Laura lo ha fatto.
È il solito trucco: travestire da principio morale una disumanità burocratica. L’iter parlamentare è un rosario di rinvii, audizioni, emendamenti e mani alzate nel vuoto. Nessuno ha il coraggio di dire che preferisce lasciare le persone sole, costrette a viaggi della speranza in Svizzera. Meglio fingersi cauti che essere sinceri.
E così Laura se n’è andata. Ma ha lasciato uno schiaffo che brucia più di mille editoriali. Ha smascherato la vigliaccheria di chi legifera per consenso e non per coscienza. Ha fatto ciò che i nostri legislatori non fanno più: dire la verità, con una dignità che loro possono solo invidiare. E che non meritano.