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Fin che la barca va, dice la canzone. Ma qui non c'è nessuna estate da ballare: si naviga contro l'indifferenza. Decine di navi, non yacht da spritz e tappeti rossi, bensì gusci galleggianti, messi insieme in fretta e furia ma pieni di umanità, salpano in questi giorni per tentare di bucare l'assedio israeliano a Gaza. Si chiama Global Sumud Flotilla: un nome che odora di resistenza, non certo di crociere sponsorizzate.
Niente selfie di ministri, niente bandierine piegate a favore di telecamera. A bordo non ci sono generali o lobbisti, ma medici, religiosi, attivisti, marinai e cittadini comuni che hanno deciso che la coscienza pesa più di un salvagente. Israele ha già promesso guai e l'Europa, come sempre, sforna la litania della “preoccupazione”. Nessuno rischia di morire per eccesso di coraggio nelle cancellerie.
Occhio, però, che la memoria brucia. Nel 2010 la Freedom Flotilla fu fermata a colpi di piombo e quest'estate i droni hanno incenerito altre imbarcazioni prima ancora che prendessero il largo. Eppure i partecipanti mostrano il petto: i nostri rischi sono poca cosa rispetto a chi vive sotto bombe e fame trasformata in arma. Parole che scandalizzano solo chi ha già venduto il vocabolario della dignità.
Il diritto internazionale, dicono, è dalla nostra parte. Ma il diritto internazionale funziona come la dieta mediterranea: tutti la celebrano, nessuno la rispetta. Così le barche cariche di aiuti si affidano più al mare che all'Onu, più alle onde che alle note della Farnesina. La legalità è scritta sui documenti, la giustizia invece rema sulle assi sconnesse di questi scafi.
E allora sì, fin che la barca va, la lascino andare. Perché se affonda, non va a fondo solo un convoglio di farina e medicine, ma l'idea stessa che esiste ancora un briciolo di umanità. E questa, a differenza delle scorte a bordo, non si ricostituisce più una volta persa.