Il destino ha un gusto sadico, si cercano garanti di pace e si finisce sempre a riesumare i becchini della guerra. Trump inventa un Consiglio per Gaza e, come testimonial, tira fuori Tony Blair, quello che recitava il vangelo dei diritti umani col piede già piantato sull’acceleratore dei carri armati. È l’usato sicuro della geopolitica, l’uomo che porta in dote pile di cadaveri e una fede incrollabile nelle bugie ben confezionate.

Affidare la tregua all’ex primo ministro inglese equivale a nominare un piromane capo dei vigili del fuoco. L’Iraq e l’Afghanistan sono lì a testimoniare: deserti di macerie e vedove, da lui firmati come “missioni compiute”. E adesso eccolo proposto come architetto del futuro di quel che resta di Gaza, con l’aria impomatata di chi non ricorda ma pretende di guidare. Un colonialismo travestito da interinale, con il sorriso lucido da conferenza internazionale.

Il suo curriculum è un inventario di disastri elevati a carriera. Dieci anni da emissario in Medio Oriente senza portare a casa neanche un granello di progresso, eppure ogni volta lo si rimette al centro della scena. Come quelle reliquie che, pur puzzando, vengono esibite per rassicurare i devoti. Tony funziona così: più fallisce, più diventa imprescindibile.

E l’enclave palestinese dovrebbe accogliere il taumaturgo del nulla, il funambolo che parla di dialogo mentre distribuisce ordini di servizio alle potenze di turno. La sua presenza non promette tregua ma amministrazione coloniale, non futuro ma gestione provvisoria delle rovine. Una pace con scadenza, imbustata e pronta all’export.

In fondo la scelta è coerente: quando il mondo cerca simboli di riconciliazione, mette in vetrina i professionisti della catastrofe. Blair, che porta ancora addosso l’odore acre delle guerre “giuste”, ora benedice Gaza dall’alto della sua credibilità marcia. È la farsa che si ripete. I popoli in ginocchio e gli ex premier in passerella, mentre la pace resta sepolta sotto le stesse macerie che lui contribuì a fabbricare.