Il tribunale di Roma sezione lavoro ha dichiarato ammissibile e rilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (il cosiddetto Jobs Act), con riguardo agli articoli 3, comma 1, 4, 35 comma 1, e 44, comma 1, della Costituzione nonché dell’art. 117, comma 1, della Costituzione in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea. Il giudice ha ritenuto inadeguata e non dissuasiva la tutela indennitaria prevista per i datori di lavoro che occupano meno di 16 dipendenti nell’unità produttiva, ovvero meno di sessanta nell’intera compagine aziendale, costituita da un indennizzo fra tre e sei mensilità.

Il giudice ha accolto l’eccezione proposta in una controversia proveniente dall’ufficio vertenze della Cgil di Roma centro-ovest-litoranea. Il tribunale ha verificato che, nel caso concreto, la lavoratrice era stata raggiunta da un provvedimento di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sfornito di prova e, tuttavia, avrebbe potuto ottenere solamente una tutela indennitaria variabile fra 835,47 e 1.670,94 euro. Esclusa la possibilità di ricorrere all’interpretazione adeguatrice, risultando l’art. 9 assolutamente inequivoco nel suo tenore letterale,

il giudice ha ravvisato la violazione del principio di effettività e ragionevolezza e, quindi, un contrasto con l’art. 3 della Costituzione. In particolare ha rilevato come la norma non garantisca l'adeguatezza del risarcimento che, sebbene non debba riparare l'intero pregiudizio, deve essere necessariamente equilibrato. Il giudice ha anche ravvisato una forte tensione di questa tutela con il parametro interposto costituito dall’art. 24 della Carta sociale europea, secondo cui l'indennizzo dev’essere congruo e tale da assicurare un adeguato ristoro. Il tribunale ha fatto anche un richiamo alla giurisprudenza del Comitato europeo dei diritti sociali secondo cui qualsiasi limite massimo impedisce che i danni siano commisurati al pregiudizio effettivamente subito e, comunque, ne oblitera il carattere dissuasivo (vedi in particolare il pronunciamento che ha accolto il reclamo collettivo della Cgil nel febbraio 2020).

In sostanza, il tribunale di Roma ha ritenuto che l’indennizzo, anche nella sua misura massima, non garantisce un’equilibrata compensazione del risarcimento, anche nella prospettiva della non necessaria integrale riparazione del pregiudizio, ed esclude la funzione di dissuasione del datore di lavoro dall’adottare un licenziamento ingiustificato. Di grande interesse è il cenno del tribunale di Roma alla irragionevolezza del rigido criterio per la determinazione della misura dell’indennità, costituito dal “numero degli occupati”, osservando come il sistema di tutele disegnato dall’art. 9, comma 1, d.lgs. 23/2015 risulti talmente limitato da costituire una forma pressoché uniforme di tutela.

In sostanza, questo sistema di tutela sacrifica in maniera sproporzionata l'apprezzamento delle particolarità del caso concreto, risultando impossibile al giudice utilizzare "in chiave correttiva" altri criteri desumibili dal sistema e contemplati all'art. 18, sesto comma, legge. n. 300/1970 e all'art. 8 della legge. n. 604 del 1966 e quindi, oltre all’anzianità di servizio, la gravità delle violazioni, il numero degli occupati, le dimensioni dell'impresa, il comportamento e le condizioni delle parti.

Nel sistema disegnato dall’art. 9, il numero degli occupati costituisce l’unico effettivo criterio di determinazione dell’indennità. Esso, però, non viene utilizzato per adeguare l’indennità bensì unicamente per limitarla. In più, il numero dei dipendenti costituisce un criterio trascurabile nell’ambito di quella che è l’attuale economia, mentre appare più significativo quello delle dimensioni dell’impresa, più elastico rispetto a quello del solo numero dei dipendenti anche alla luce dell’art. 44 della Costituzione, ove è sancito un principio generale di favore per le piccole imprese, con la precisazione che da esso, però, non può desumersi l’esclusione di un’adeguata tutela del posto di lavoro. In conclusione il tribunale di Roma ha rimesso la questione alla Corte Costituzionale affinché valuti la conformità alla Costituzione dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23.