Il 4 settembre 1904 a Buggerru, comune situato sulla costa occidentale della Sardegna, i minatori si ribellano ai soprusi padronali e decidono di incrociare le braccia. I dirigenti della società francese che gestisce la miniera e le terre circostanti chiedono l’aiuto delle autorità piemontesi che mandano nell’isola due compagnie di fanteria. Il tragico bilancio finale sarà di tre (secondo alcune fonti quattro) morti e decine di feriti.

L’indignazione generale per l’accaduto porterà alla proclamazione del primo sciopero nazionale della nostra storia. Allo sciopero generale del 1904 seguiranno i grandi scioperi del 1911, del 1914, del 1919-1920. Poi lo sciopero diventa reato.

La legge 563 del 3 aprile 1926, riconoscendo giuridicamente il solo sindacato fascista, istituirà una speciale magistratura per la risoluzione delle controversie di lavoro, cancellando il diritto di sciopero. Con l’entrata in vigore del Codice Rocco lo sciopero verrà non solo bandito, ma considerato reato - in diverse fattispecie - tra i delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio. Per più di un decennio il termine “sciopero” scompare dalle cronache italiane, per ricomparire prepotentemente nel marzo 1943 e poi ancora, e sempre di più, nei due anni successivi.

Tra il 5 e il 17 marzo 1943 le fabbriche torinesi sono bloccate da una protesta che coinvolge 100 mila operai. Dietro alle rivendicazioni economiche, le agitazioni hanno un chiaro intento politico e cioè la fine della guerra e il crollo del fascismo. Un’ondata che da Torino si estende alle principali fabbriche del Nord Italia.

Con gli scioperi del marzo 1943, succede qualcosa di nuovo in Italia. In pochi giorni, dopo il via dato da Torino, nel triangolo industriale 300 mila operai cominciano la lotta e questa assume un significato politico enorme e immediato, anche se, fabbrica per fabbrica, vengono avanzate dagli operai solo rivendicazioni salariali precise e limitate.

“Gli scioperi del marzo ’43 - osservava nel 1975 Aldo De Jaco - (fra l’altro conclusi non solo con un grande successo politico, ma anche con esito positivo dal punto di vista economico) hanno un grande rilievo nella storia dell’unità dei lavoratori. Essi ne esprimono infatti la resurrezione come massa dopo più di venti anni di feroce oppressione di classe e pongono le basi di una unità nuova delle grandi correnti sindacali storiche che già avevano guidato i lavoratori fino alla dittatura e poi anche nella clandestinità. Questa unità sarà poi sancita dal Patto di Roma dell’anno dopo, che darà vita alla Cgil unitaria”.

Scriveva su Patria Indipendente Lucio Cecchini: “Gli scioperi del marzo ’43 ratificarono, dopo un mese di lotta, non soltanto la vittoria dei lavoratori sul terreno salariale. Essi segnarono qualche cosa di più: la prima, grande vera sconfitta del fascismo nei suoi elementi ritenuti i più vitali, quali la potenza della forza repressiva poliziesca e di partito, il mito della sua organizzazione, la decantata adesione totalitaria dei lavoratori e del popolo italiano al regime”.

La Resistenza la iniziano le lavoratrici e i lavoratori. E loro la concludono, occupando le fabbriche due anni dopo alla vigilia del 25 aprile 1945. Insorgendo, scioperando, nuovamente nel marzo 1944.

Il 1° marzo 1944 tanti, tantissimi lavoratori e lavoratrici (secondo il ministero degli Interni circa 210 mila, di cui circa 32 mila solo a Torino; secondo Leo Valiani, d’accordo anche Paolo Spriano, perlomeno 500 mila operai e impiegati) incrociano le braccia malgrado la repressione, la minaccia di licenziamento, la paventata deportazione in Germania.

Agli scioperi aderiscono centinaia di migliaia di operaə, impiegatə, tecnicə e perfino dirigenti di ogni categoria produttiva e servizio pubblico: tranvierə, ferrovierə, postelegrafonicə, dipendentə statalə e municipalə, bancarə e assicuratorə, studenti e studentesse di molte scuole superiori e alcune università; scioperano anche i e le dipendenti del Corriere della Sera di Milano.

Un elenco lunghissimo, annotato scrupolosamente da Eugenio Curiel (assassinato dai nazifascisti il 24 febbraio 1945) in La Nostra Lotta, rivista clandestina da lui diretta, nel numero del marzo 1944. VediIntervista a Nella Marcellino: quel tram per Mirafiori

“In tutte le fabbriche un grido unanime irrompe da ogni petto”, si legge in un volantino: “Basta con la fame, vogliamo l’aumento delle razioni alimentari! Salviamo i nostri figli, i nostri vecchi, il nostro popolo da una morte lenta, dalla fame! Lavorare per i tedeschi significa fame, miseria, deportazione; significa attirare sulla nostra città i bombardamenti, prolungare i massacri e finire come schiavi in Germania. Ma la lotta delle masse, lo sciopero generale impedirà l’attuazione di questo piano criminale”.

Scrive Adolfo Pepe: “Lo sciopero generale segna il passaggio definitivo del mondo del lavoro all’azione diretta, alla resistenza più ferma e alla guerra partigiana, che assumerà definitivamente i caratteri di guerra di popolo contro l’occupazione nazifascista. Ancora una volta a Torino, alla Fiat Mirafiori e alla Fiat Lingotto, e poi in tutti i grandi e piccoli stabilimenti piemontesi; a Milano, nell’intera provincia, dove lo sciopero fu compatto dal 1° all’8 marzo; a Legnano, Varese, Brescia, Bergamo, in tutta la Lombardia; a Bologna, dove dagli stabilimenti Ducati lo sciopero si propaga in tutte le province emiliane; in Toscana, a partire dalle officine Galileo e Pignone; così in Liguria e in Veneto”. Vedi: Banca dati sugli scioperi degli anni 1943, 1944, 1945.

“La classe operaia che giunge agli scioperi del 1943-1944 – prosegue Pepe – è una classe che riacquista piena fiducia nelle proprie forze: si assiste al passaggio da una fase difensiva e di lotta di tipo quasi esclusivamente economico, a un’offensiva in cui la caratterizzazione è essenzialmente di natura politica. Non si sciopera solamente contro gli industriali e i padroni, ma contro il fascismo, contro la guerra fascista e a sostegno della lotta partigiana, per l’insurrezione, per la libertà e per la democrazia”.

“Quegli scioperi – ribadiva Guglielmo Epifani – assunsero subito un forte connotato antifascista; fu una lotta guidata da tre motivazioni politiche precise, che si sommarono ovviamente alle rivendicazioni di carattere strettamente economico. In primo luogo, lo sciopero puntò a conquistarsi alcuni spiragli di libertà, di critica e di opposizione a un regime liberticida che aveva condotto l’Italia nelle braccia dell’alleato nazista e nel baratro della seconda guerra mondiale; in secondo luogo, esso ribadì il valore sociale del lavoro quale fattore fondamentale per lo sviluppo e il rafforzamento delle identità collettive; infine, espresse in forma netta e decisa l’opposizione alla guerra nazifascista. Tutti elementi questi (la libertà, la centralità del lavoro, la pace) che avrebbero costituito il filo rosso tra la lotta partigiana (1943-1945) e l’elaborazione della Costituzione democratica, repubblicana e antifascista (1946-1948)”.

Da un punto di vista prettamente economico, l’esito degli scioperi non è in realtà positivo: le rivendicazioni economiche non vengono accolte e la repressione è durissima (l’ambasciatore Rahn riceve personalmente da Hitler l’ordine di far deportare il 20 per cento degli scioperanti. Anche se il provvedimento non sarà eseguito nella misura indicata per “difficoltà tecniche inerenti ai trasporti” e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica, si calcola che circa 1.200 operai saranno deportati nei campi di lavoro o in quello di sterminio di Mauthausen). Vedi16 giugno 1944, dalla fabbrica a Mauthausen. Una tragedia operaia.

Ma l’impatto politico è enorme. Scriveva l’Unità: “Le notizie del grande sciopero generale sono risuonate come una sveglia, come un grido di guerra in tutta l’Italia occupata (…) I lavoratori italiani non rientreranno nelle fabbriche domani. Si sbaglierebbe di grosso chi credesse che hanno capito che è inutile lottare, che contro i tedeschi non è possibile farcela. Proprio il contrario; i lavoratori hanno imparato a conoscere la loro forza, la lotta di quando sono compatti e decisi, hanno capito che non basta più lo sciopero pacifico, per difendere la propria vita bisogna andare oltre. Tornano nelle fabbriche a continuare la lotta, a preparare l’insurrezione nazionale, l’azione armata per dare il colpo decisivo”.

Affermava Giuseppe Di Vittorio in occasione del primo anniversario della Liberazione: “L’insurrezione vittoriosa di tutto il popolo dell’Italia del Nord il 25 aprile 1945 realizzò la premessa essenziale della rinascita e del rinnovamento democratico e progressivo dell’Italia, come della sua piena indipendenza nazionale. È per noi motivo di grande soddisfazione ricordare che a questo movimento di riscossa nazionale, il contributo più forte e decisivo fu portato dai lavoratori italiani. Furono gli operai, i contadini, gli impiegati e i tecnici che costituirono la massa e il cervello delle gloriose formazioni partigiane e di tutti i focolai di resistenza attiva all’invasore tedesco”.

Proseguiva Di Vittorio: “Chi può dire se la clamorosa vittoria del 25 aprile sarebbe stata possibile senza gli scioperi generali grandiosi che, dal marzo 1943, si susseguirono, a breve distanza, sino al 1945? Quegli scioperi, che contribuirono fortemente a paralizzare l’efficienza bellica del nemico e a sviluppare la resistenza armata, costituiscono un esempio unico e glorioso di lotta decisa dalla classe operaia sotto il terrore fascista, sotto l’occupazione nazista e in piena guerra. È un esempio che additava il proletariato italiano all’ammirazione del mondo civile!”.

Ribadiva alla Camera dei deputati il 23 aprile 1970 il futuro presidente della Repubblica, il partigiano Sandro Pertini: “Non dimentichiamo, onorevoli colleghi, che su 5.619 processi svoltisi davanti al tribunale speciale, 4.644 furono celebrati contro operai e contadini. E la classe operaia partecipa agli scioperi sotto il fascismo e poi durante l’occupazione nazista, scioperi politici, non per rivendicazioni salariali, ma per combattere la dittatura e lo straniero, e centinaia di questi scioperanti saranno poi inviati nei campi di sterminio in Germania, ove molti di essi troveranno una morte atroce. Saranno i contadini del Piemonte, di Romagna e dell’Emilia a battersi e ad assistere le formazioni partigiane. Senza quest’assistenza offerta generosamente dai contadini, la guerra di Liberazione sarebbe stata molto più dura. La più nobile espressione di questa lotta e di questa generosità della classe contadina è la famiglia Cervi. E saranno sempre i figli del popolo a dar vita alle gloriose formazioni partigiane”.

Così continuava Pertini: “Onorevoli colleghi, senza questa tenace lotta della classe lavoratrice – lotta che inizia dagli anni ’20 e termina il 25 aprile 1945 – non sarebbe stata possibile la Resistenza, senza la Resistenza la nostra patria sarebbe stata maggiormente umiliata dai vincitori e non avremmo avuto la Carta costituzionale e la Repubblica. Protagonista è la classe lavoratrice che con la sua generosa partecipazione dà un contenuto popolare alla guerra di Liberazione. Ed essa diviene, così, non per concessione altrui, ma per sua virtù, soggetto della storia del nostro paese”.

“L’occupazione nazifascista non finì”, correttamente constatava sull’Unità del 15 marzo 2014 Oreste Pivetta: “Cominciò la stagione peggiore della guerra ‘inespiabile’, come scrisse Ferruccio Parri ricordando il rastrellamento della Benedicta, condotto dai nazisti tra le colline dell’Appennino tra Liguria e Piemonte: le fucilazioni di massa furono lasciate ai bersaglieri di Salò, alle deportazioni provvidero i tedeschi. Era aprile, un mese dopo lo sciopero generale. La ritirata s’accompagnò alle stragi di bambini, donne, uomini, alle rappresaglie più feroci: dalle Ardeatine (il 24 marzo) a Monchio, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. In autunno poi, mentre rallentava l’avanzata alleata, la controffensiva nazifascista fu spietata. Ma lo sciopero generale aveva dettato la svolta: anche chi non aveva scelto di combattere fucile in mano aveva scelto di scendere in campo, di prendersi le proprie responsabilità, mostrando la putrescenza e l’isolamento di un regime. L’operaio che in tuta incrociò le braccia (anche in un celeberrimo manifesto commemorativo) si riprese la scena e indicò la strada che avrebbe condotto a una Repubblica ‘fondata sul lavoro’”.

Fondata sul lavoro, democratica e antifascista.