Il 1° giugno del 1974, quattro giorni dopo la bomba di piazza della Loggia a Brescia, muore per le ferite riportate l’insegnante Luigi Pinto.  Aveva 25 anni ed era un militante della Cgil Scuola. Diventa la settima vittima della strage. Foggiano, aveva lasciato la città d’origine subito dopo il diploma: era stato operaio in uno zuccherificio, minatore in Sardegna, fino ai primi incarichi di insegnamento delle Applicazioni tecniche nella scuola media che lo portarono a Rovigo, poi a Ostiglia, infine a Siviano di Montisola, in provincia di Brescia. 

“Quel 28 maggio - diceva qualche anno fa Maurizio Carmeno, segretario generale della Camera del lavoro di Foggia - Gino, come lo chiamavano i suoi cari, era in quella piazza assieme a tanti lavoratori e cittadini per manifestare contro una lunga sequela di attentati neofascisti. Un presidio democratico che ebbe una partecipazione enorme, anche grazie allo sciopero generale di quattro ore che fu indetto da Cgil Cisl Uil. La bomba con un chilo di tritolo fu inserita in un cestino dei rifiuti posizionato su una colonna del loggiato della piazza, proprio dove Luigi Pinto e altri avevano cercato riparo per l’incessante pioggia”.

Questa la cronaca. Il 28 maggio 1974 a Brescia, durante una manifestazione unitaria del sindacato, scoppia una bomba a Piazza della Loggia. È una strage fascista; i morti sono otto, di cui cinque attivisti della Cgil: Giulietta Banzi Bazoli di anni 34, Livia Bottardi Milani di anni 32, Clementina Calzari Trebeschi di anni 31, Euplo Natali di anni 69, Luigi Pinto di anni 25, Bartolomeo Talenti di anni 56, Alberto Trebeschi di anni 37, Vittorio Zambarda di anni 60.

“Una bomba con un chilo di tritolo è scoppiata questa mattina fra la folla che partecipava ad una manifestazione contro la violenza e il terrorismo neofascista in piazza della Loggia, nel cuore di Brescia - scrive il Corriere della Sera - Un massacro, sei morti oltre novanta feriti, due dei quali in gravi condizioni (ndr Luigi Pinto morirà qualche giorno dopo, il 1 giugno, Vittorio Zambarda il 16): l’attentato più grave dal giorno della strage di piazza Fontana a Milano; una sfida sfrontata alle istituzioni democratiche, un’azione abietta e crudele diretta a seminare morte e dolore, indiscriminatamente, fra la massa pacifica della popolazione, fra i lavoratori, fra gli studenti. È stato - non vi possono essere dubbi - un attentato di marca nera, giunto al termine di una lunga serie di violenze, di provocazioni, soprattutto di attacchi dinamitardi, che da oltre due anni hanno fatto di Brescia il punto più caldo e la chiave di volta del terrore fascista”.

La paternità della strage viene rivendicata da Ordine Nero e da Anno Zero - Ordine Nuovo. Ancora una volta risposta del Paese è impressionante: il giorno dopo a Milano oltre 200 mila persone confluiscono in piazza del Duomo dove a nome della Federazione unitaria parla Agostino Marianetti; a Napoli, alla presenza di circa 100 mila manifestanti, a parlare è Franco Marini; a Bologna in piazza Maggiore parla Bruno Trentin, a Torino Giorgio Benvenuto, a Roma - in Piazza San Giovanni dove confluiscono oltre 300 mila persone - intervengono Luciano Lama, Raffaele Vanni e Luigi Macario. 

Nell’aprire la manifestazione di Piazza San Giovanni dirà Luciano Lama: “Da Piazza Fontana a Brescia una mente criminale, una mano sola ha operato per colpire a morte lo stato democratico per spegnere nella coscienza dei cittadini l’amore per la libertà; ma compagni e amici dei partiti democratici, questo disegno che vuole disgregare il paese non riesce: i grandi valori della Resistenza non sono senza difensori. Voi li vedete qui oggi, questi difensori riuniti come in altre cento piazze d’Italia, decisi a difendere le istituzioni, a promuovere il progresso sociale e civile”.

I funerali di Stato si tengono il 31 maggio. Per la Federazione unitaria parla Luciano Lama il cui discorso sarà preventivamente visionato dal presidente Leone (agli applausi per gli interventi di Lama e del socialista Gianni Savoldi seguono i fischi della piazza e la contestazione: Giovanni Leone e Mariano Rumor sono i più bersagliati, ma gli insulti investono tutti i principali esponenti della Dc).

A conclusione dei funerali la Federazione unitaria di Brescia stenderà un comunicato stampa in cui esprimerà il ringraziamento ai lavoratori che hanno gestito il servizio d’ordine e l’organizzazione dei funerali: “La Federazione Bresciana Cgil-Cisl-Uil – si legge nel comunicato – a conclusione dei solenni funerali dei compagni caduti in piazza della Loggia esprime il proprio vivo ringraziamento alle migliaia di compagni dei consigli di fabbrica e di azienda, ai lavoratori attivisti di ogni settore e categoria, che in questi giorni si sono ininterrottamente prodigati con grande senso di responsabilità e di sacrificio, per coordinare e mantenere l’ordine pubblico e vigilare contro ogni provocazione”.

Il processo andrà, fra depistaggi e indagini, avanti per decenni e decenni. Alla fine saranno riconosciuti colpevoli il dirigente neofascista Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. La condanna, per entrambi in appello, è l’ergastolo. È il 22 luglio 2015: quarantuno anni dopo l’attentato terroristico.

Manlio Milani, marito di Livia Bottardi, da anni presidente dell’Associazione dei caduti di piazza della Loggia segue - scrive Benedetta Tobagi - “ogni udienza di ogni processo. I suoi capelli sono imbiancati vedendo sfilare sui banchi decine di imputati e centinaia di testimoni, sopportando le reticenze dei servitori infedeli dello Stato, guardando negli occhi alcuni degli uomini più pericolosi dell’eversione di destra. 'Sono cambiato molto, dall’inizio, - considera. - A certi gli avrei messo volentieri le mani addosso, una volta!'. Quando si aprì il primo processo, nel marzo del 1978, era un agguerrito militante del Pci, ostile alla prospettiva del compromesso storico. "Per me è stata un’esperienza profondamente educativa (…) qui dentro ho assimilato l’importanza delle istituzioni.  Fino in fondo»'”

“Il 28 maggio 1974, alle ore 10.12, ho smesso di essere quel che ero e ho cominciato a essere quello che sarei stato per il resto della mia vita: un sopravvissuto”, dirà Redento Peroni, ferito nella strage. “Io prendevo 100 mila lire al mese, ne pagavo 27 mila di mutuo. Perdere un giorno di salario era un sacrificio grosso. Quel giorno non lo facevo per i miei diritti, ma per la libertà di tutti. Scioperavo per gli altri, non per me stesso. Quella mattina un collega mi indica un fascista che era in piazza. Strano, penso. Comincio a seguirlo. E nel frattempo guardavo nella fontana, nelle griglie a terra, se c’era qualcosa. Poi l’ho perso di vista. Ero sotto la pioggia, vicino al cestino. Poi un uomo, in dialetto, mi ha detto 'ragazzo vieni sotto i portici, non ti fradiciare'. Mi sono spostato (…) Quando è scoppiata la bomba il corpo dell’uomo che mi aveva fatto spostare, Bartolomeo Talenti, e quello di Euplio Natali mi hanno fatto da schermo, salvandomi. (…) Ho vissuto decenni sentendomi in colpa per essere rimasto vivo in mezzo a quel massacro. Ho aspettato 43 anni di sapere la verità, non per vendicarmi. Io sono sempre stato disposto a perdonare, ma volevo volti, nomi. Volevo sapere chi e perché aveva messo quella bomba che ha ridotto a brandelli e ucciso otto persone, ferito più di cento giovani, donne, operai. Adesso finalmente è fatta giustizia anche se tutta la verità forse non la sapremo mai”.