La sera del 21 luglio 2001, tra le 22 e la mezzanotte, nella scuola Diaz di Genova, dove 93 ragazzi si erano sistemati per passare la notte, fanno irruzione i Reparti mobili della Polizia di Stato con il supporto operativo di alcuni battaglioni dei Carabinieri.

Così la Corte d’appello di Genova descriverà i fatti di quella notte: “Gli agenti si divisero nei piani dell’edificio, parzialmente immersi nel buio. La maggior parte di loro aveva il viso coperto da un foulard, essi cominciarono a colpire gli occupanti con pugni, calci e manganelli, gridando e minacciando le vittime. Alcuni gruppi di agenti si accanirono anche su degli occupanti che erano seduti o allungati per terra. Alcuni degli occupanti, svegliati dal rumore dell’assalto, furono colpiti mentre si trovavano ancora nei loro sacchi a pelo; altri lo furono mentre tenevano le braccia in alto in segno di resa o mostravano le loro carte d’identità. Altri occupanti tentarono di scappare e si nascosero nei bagni o nei ripostigli dell’edificio, ma furono riacciuffati, colpiti, talvolta tirati fuori dai loro nascondigli per i capelli”.

Un giorno terribile e indelebile nei ricordi di tutte e tutti noi, nel quale, anche secondo quanto stabilito dai giudici della Corte di Strasburgo, sarà violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani sul “divieto di tortura e di trattamenti disumani o degradanti”.

La caserma di Bolzaneto dista 15 chilometri dal centro di Genova. Qui vengono portati i fermati della manifestazione del 20 e 21 luglio e poi dell’irruzione alla Diaz. Racconterà un poliziotto in forza alla caserma: “Quella notte il cancello si apriva in continuazione, dai furgoni scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti stare in piedi contro i muri. Una volta all’interno gli sbattevano la testa contro il muro. A qualcuno hanno pisciato addosso, altri colpi se non cantavano ‘Faccetta nera’. Una ragazza vomitava sangue e le agenti dei Gom la stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di stuprarle con i manganelli”.

“Ho visto ragazzini a terra - scriverà Lidia Ravera - su cui infierivano quattro, cinque poliziotti, in casco e divisa da ‘giovane’, non in divisa da poliziotto. Ho visto facce insanguinate di ragazzi tirati per i capelli, come se non fossero feriti, come se non fossero inermi. (…) Sembrava di essere in guerra? No, sembrava di essere in un paese fascista. Vedi Napoli e poi muori, vedi Genova e poi cresci. Erano sbalorditi i ‘Rocco e Antonia’ che, dopo la maturità e prima di andare in vacanza, hanno voluto testimoniare la loro attenzione per le cose del mondo. Erano increduli come lo sei la prima volta che scopri quanto è reale quello che tu credevi fosse uno slogan: i ‘grandi’ asserragliati e far finta di occuparsi dei poveri (come diceva Totò? ‘ma mi faccia il piacere!’), i ‘piccoli’ a subire la violenza dei buttafuori, quelli pagati perché la festa non sia turbata”.

Prosegue Lidia Ravera: “Una ragazza (gli occhi ancora rossi e l’angoscia del giorno dopo) mi ha detto: ‘Ma non possono riunirsi a casa di uno di loro? Senza farsi notare?’. Era partita quasi come per andare a un allegro raduno, di quelli che incontri tanta gente che la pensa come te e si sta bene e si fa una cosa giusta ma anche piacevole. Adesso vorrebbe non essere mai partita. ‘È stato troppo brutto’. La sensazione è di parlare con una ragazzina stuprata. È come perdere la verginità, vedere il male al lavoro. Dopo, non sei più come eri prima”.

“La cosa che più mi ha terrorizzato della mia permanenza a Bolzaneto - dirà un testimone - non è stato quello che ho subìto, ma quello che sentivo stavano subendo gli altri. Nella nostra cella arrivavano le urla terribili di altri manifestanti, urla che sono rimaste per diverso tempo aggrappate ai ricordi delle settimane successive. Devo anche ammettere il sollievo codardo di non essere là e la paura tremenda che sarebbe presto toccato a noi, cosa che in parte accadde, e poi l’arrivo improvviso dell’elemento che più di tutti mi spinge a chiedermi cos’è un essere umano: le risate. Insieme alle urla di dolore, sentivo le risate. È qualcosa che non t’aspetti, perché le grida di dolore di tante persone in qualche strage o film le abbiamo sentite, però le risate, le risate no”.

Le risate no. L’omicidio, la mattanza, la sospensione delle garanzie costituzionali in una scuola e in una caserma, sotto gli occhi di ministri della Repubblica e politici troppo distratti per vedere, per capire, per reagire durante e tristemente anche dopo gli avvenimenti, no. Non in un paese civile.

“In un Paese civile - tuonerà l’Unità - la polizia non irrompe, nella notte, in una scuola concessa dal Comune di Genova, e adibita a centro di accoglienza per i giovani del Genoa social forum, senza un mandato della magistratura. Non bastona a sangue i ragazzi che dormono. Non ne manda all’ospedale 61, di cui 12 con ferite gravi. Non costringe gli altri a stare in ginocchio con le mani dietro la testa come se stessimo nel Cile di Pinochet o nell’Argentina di Videla. Non distrugge, senza motivo, tutto quello che c’è in quelle stanze, come avrebbero fatto le tute nere di cui quella stessa polizia era alla ricerca. Non lascia come testimonianza del suo passaggio scie di sangue e ciocche di capelli. E come giustificazione di quanto fatto non mostra, a operazione conclusa, alcuni coltelli, una mazza di legno, un paio di passamontagna, con l’enfasi di chi ha salvato la Nazione da chissà quali pericoli”.

Continua l’articolo: “In un Paese civile la Polizia di Stato ha il dovere di perquisire un edificio nel quale si sospetta siano nascoste illegalmente armi o alla ricerca di persone che si sono macchiate di crimini. Ha il potere di agire con la rapidità e l’efficacia che le circostanze richiedono. Ma non si comporterà mai in maniera tale da dare l’impressione di una vendetta. Né dimostrerà di essere lì, non alla ricerca di corpi di reato, bensì per regolare i conti dopo le aggressioni subite nelle strade della città il giorno prima. Scagliandosi su chi, molto probabilmente, con quegli incidenti poco c’entrava”.

L’Unità così conclude: “In un Paese democratico un ministro degli Interni, degno di questo nome, non si lascia prendere alla sprovvista da eventi previsti e prevedibili come l’arrivo alle frontiere di bande organizzate di provocatori, composte da individui abbondantemente schedati da tutte le polizie europee. Non trasforma il coordinamento delle forze dell’ordine in una baraonda, con il risultato di mandare allo sbaraglio agenti e carabinieri e, nel panico generale, di provocare un morto.

E, soprattutto, non autorizza vergognosi assalti, come quello avvenuto sabato notte nella scuola Diaz di Genova. In un Paese democratico un ministro degli Interni del genere toglie immediatamente il disturbo”. In un paese civile…