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Il vento che soffia lo respiriamo ogni giorno, e ogni giorno sembra soffiare più forte. Dagli Stati Uniti all’Europa, dall’Ungheria alla stessa Italia, sino al Medio Oriente, il modello politico che si afferma è quello di un autoritarismo sempre più gretto, violento, oltre che spudorato, che fatica a rimanere all’interno di un involucro democratico indebolito: anzi, lo costringe a una fragilità pericolosa, una deriva che odora di nuovo sovranismo.
Su questi temi riflette l’ultimo lavoro di Emanuele Profumi Servitù democratica. Come fermare la spirale autoritaria (Prospero editore, pp.248, euro 17), attraverso un ragionamento di carattere filosofico e politico, in linea con la formazione accademica dell’autore, e con molte delle sue precedenti pubblicazioni.
Quali sono i motivi più radicali, dirimenti, della crisi democratica in atto?
Il problema di una crisi profonda nella democrazia liberale affonda in due movimenti storici ben precisi. Il primo è la vittoria, nel secondo dopoguerra, dell’immaginario capitalista sulla società. Il sistema capitalista è divenuto egli stesso società, una società che si muove in base a princìpi, valori, idee e ragionamenti che fanno parte dell’essenza del capitalismo. Poi, dalla metà degli anni Settanta, c’è stata una reazione all’espansione democratica di quell’epoca, da cui scaturisce il neoliberismo, divenuto non solo politica, o economia, ma ideologia vera e propria, come scriveva anche Karl Marx. C’è poi un altro punto.
Quale?
Una tendenza che fagocita tutte le altre visoni delle società, e che, come sostiene anche Colin Crouch nel suo Postdemocrazia, ha innescato una spirale autoritaria che si lega a una dinamica di scollamento tra politica ed elettorato, processo da cui si generano i governi di stampo autoritario che possiamo osservare oggi, dagli Usa all’Ungheria, sino in Italia: basti pensare al recente decreto-sicurezza. Sono provvedimenti che dissolvono la democrazia dall’interno, lasciando soltanto la carcassa delle istituzioni. D’altronde, in linea con tutto questo, già secondo l’economista e sociologo tedesco Werner Sombart nella nascita del capitalismo industriale era implicita l’espansione dell’industria militare, altrimenti il capitalismo non si sarebbe espanso. Almeno non in questo modo.
Soffermiamoci su questo punto. Quanto è cambiato nel corso del secolo attuale il rapporto tra capitalismo e guerra?
Nel XXI secolo abbiamo subìto un’accelerazione profonda, e un’altra guerra mondiale secondo me è già in atto, come già detto da papa Francesco. Il dato incontrovertibile è l’aumento della spesa militare in questi anni, in un intreccio tra militarismo e capitalismo già evidente subito dopo la seconda guerra mondiale e ora sempre più protagonista, al punto da condizionare ogni governo. Questo non è casuale, perché oggi la nostra società è necessariamente legata a una visione del potere come potenza, dove la guerra assume una centralità quasi inevitabile. Eppure non tutti si arrendono a questa logica.
Per esempio?
Penso ai partigiani e le partigiane che hanno determinato la scrittura della Costituzione; penso agli zapatisti in Messico, o ai curdi, tutti concordi nell’affermare che la guerra non possa essere la soluzione. Ora invece la guerra è divenuta anche il modello di come si fa conflitto, l’ethos di un nostro comportamento entro cui ci si confronta proprio attraverso un’esclusiva logica di guerra. E se è troppo semplice citare Gaza, o l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti dei migranti, penso anche a gruppi nostrani dichiaratamente non violenti, che non possono più manifestare se non a rischio di una forte repressione. Questo non è governo, ma un modello di conflitto, che sostituisce l’istituzione democratica dello Stato.
Come siamo arrivati a questo?
Progressivamente al posto del capitalismo è sopraggiunto l’immaginario capitalista e militarista, che ha imposto alla società una visione del potere che è quella che viviamo oggi. Pensiamo ai discorsi dei leader neoautoritari, anche trasversali; e da noi, ripeto, il ddl sicurezza come espressione di questo intreccio. Qualcuno l’avrebbe chiamata violenza strutturale, ed è questa a gettare le basi della servitù democratica.
Che è il titolo del libro...
Sì. Ma la servitù democratica è un processo sviluppato nel tempo, non ha una data specifica. Già nel XVII secolo, Étienne de La Boétie, ne parlava nel suo discorso sulla servitù volontaria, categoria riconoscibile quando la popolazione non solo si disfa dei valori e dei princìpi delle istituzioni democratiche, ma difende anche una sua condizione di servitù.
Una chiave di lettura che alcuni hanno proposto dopo il recente voto referendario…
Per come la vedo io, coloro che non hanno votato e chi ha cercato di legittimare la richiesta di non andare a votare sono partecipi di questa servitù democratica, sono complici di questo svuotamento della democrazia liberale che, per certi versi, sembra essere in mano ai suoi stessi assassini.
Nel libro si parla anche di cultura consumista.
La cultura consumista è quella che già Zygmunt Baumann definisce quando afferma che le persone ritrovano la propria identità attraverso la propria mercificazione, merci automaticamente considerate come beni. C’è il problema dell’individuazione, come si direbbe in psicanalisi, in cui la propria identità viene fissata soltanto attraverso l’acquisto di merci, mentre in realtà il processo di individuazione dovrebbe essere qualcosa di profondo, relazionale, comunitario. Laddove si taglia e ricuce la relazione con le merci, si crea una cultura in cui l’io è indebolito, c’è un abbassamento del pensiero critico, della capacità di creare ciò che è comune. Si arriva così a una cultura egoica, dove non esiste più l’istanza dell’io ma dell’ego, che di fatto, come nel mito di Narciso, guida le scelte di chi non riesce a interiorizzare l’altro da sé.
Chi è a rimanere vittima di questa trasformazione?
Il non-incontro con gli altri, attraverso una socialità che ricrea soltanto una finta socialità, asfittica, non fertile, che non è né politica né prepolitica, ma antipolitica, perché il riconoscimento dell’altro in politica è fondamentale. Ecco perché dico che la pratica politica, oggi, sarebbe rivoluzionaria, se si riuscisse a sviluppare una controtendenza rispetto alla realtà attualmente dominante.
Dunque come se ne esce?
Torniamo ai referendum e pensiamo alla Cgil, il sindacato italiano con un ruolo secondo me molto importante. In parte questa richiesta di referendum va nella giusta direzione, e i risultati non sono mai immediati. La società si deve svincolare da cose molto profonde che la portano a non partecipare, a non rivendicare diritti che logicamente dovrebbero essere considerati ovvi, ma non lo sono. In questo senso credo si debba avviare un processo di deburocratizzazione del sindacato, magari creando al suo interno gruppi e organizzazioni con un margine di autonomia importante. In ogni caso la Cgil resta fondamentale in Italia per la ripoliticizzazione di un tessuto e un ethos profondamente sociali.