Il 12 febbraio 1924 viene dato alle stampe a Milano, in Via Santa Maria alla Porta nei pressi di Corso Magenta, il primo numero del ‘quotidiano degli operai e dei contadini’. La titolazione del giornale è decisamente evocativa: l’Unità.

Titolo “puro e semplice” nella definizione che ne dà Antonio Gramsci riportata nella lettera del 12 settembre 1923 al Comitato esecutivo del Pcd’I attraverso la quale veniva proposta la fondazione del giornale (“Dovrà essere un giornale di sinistra, della sinistra operaia. Non è molto facile fissare tutto ciò in un programma scritto; ma l’importanza non è di fissare un programma scritto, è piuttosto nell’assicurare al partito stesso, che nel campo delle sinistre operaie ha storicamente una posizione dominante, una tribuna legale che permetta di giungere alle più larghe masse con continuità e sistematicamente”).

“Il nostro giornale - recita il primo editoriale, ‘La via maestra’ - si propone (…) di sondare metodicamente le cause che hanno piegato i lavoratori sotto il peso di una gravissima sconfitta e di farne pesare gli insegnamenti nella loro coscienza militante. L’unità a cui noi facciamo appello non è quindi un richiamo di ordine sentimentale e decorativo; non è il fiotto fangoso e torbido dei consensi stagnanti e senza sbocco; essa tende a forgiare lo strumento idoneo per la lotta del proletariato, ed ha alla sua base una concezione politica ben definita e coerente, che vi circola come sangue vivo, che la genera e la rinsalda”.

“I giornalisti che in piena notte aspettano con ansia nella tipografia di via Settala 22 a Milano - scriverà anni dopo Pietro Spataro - non immaginano che sta per cominciare una lunga storia. Forse non lo immaginano nemmeno l’ideatore del giornale, Antonio Gramsci, che è a Mosca, e il suo compagno di battaglia Palmiro Togliatti appena uscito dal carcere fascista. Verso le tre e mezzo del 12 febbraio 1924 escono dalla rotativa Koenig&Bauer le prime copie di un giornale che invece è destinato a durare: si chiama l’Unità. Il Dna del quotidiano viene combinato lì, nelle stanze sgangherate della prima redazione di Milano, dentro la tempesta di un periodo di ferro e di fuoco, tra il grande sogno del comunismo e la ferocia dei mazzieri fascisti appostati agli angoli delle strade. Gramsci ha trentadue anni quando prende carta e penna e scrive la lettera di fondazione dell’Unità. Sta per finire il 1923, siamo a settembre. A Mosca si preparano i festeggiamenti per il sesto compleanno della Rivoluzione di Ottobre ma la grave malattia di Lenin ha già aperto la sanguinosa guerra di successione al vertice del partito. A Roma Benito Mussolini è al potere da poco meno di un anno e il fascismo, dopo la marcia su Roma, controlla ogni angolo del Paese ma non ha ancora battuto fino in fondo il suo pugno di ferro. Solo una manciata di mesi e lo scenario cambierà radicalmente: sarà l’assassinio di Giacomo Matteotti lo spartiacque tra il prima e il dopo”.

Dal 12 febbraio 1924 al 31 ottobre 1926 - giorno in cui esce l’ultimo numero legale – l’Unità subisce ben 146 sequestri nazionali. Il giornale ha inoltre due periodi di sospensione: dal 13 al 16 gennaio 1925 e dal 10 al 22 novembre dello stesso anno in conseguenza dell’attentato a Mussolini, opera di Tito Zamboni.

La vita legale del quotidiano è appesa a un filo e dopo numerosi arresti, sequestri e irruzioni della polizia, nell’autunno 1926 il governo ne sospenderà ufficialmente le pubblicazioni. Il 27 agosto 1927, dalla francese sede di Rue d’Austerlitz, esce il primo numero dell’edizione clandestina. Dal 1934 al 1939 la diffusione subisce una battuta d’arresto e diventa man mano meno intensa, ma con lo scoppio della guerra e la lotta nazifascista, il giornale prende nuova vita.

Il 1º luglio 1942 l’Unità ritorna in Italia, seppure in clandestinità. Con l’arrivo degli alleati dal 6 giugno 1944 riprende a Roma la pubblicazione ufficiale del giornale che uscirà dalla clandestinità, dopo quasi vent’anni, il 2 gennaio 1945. La redazione s’insedia a via IV Novembre. Nuovo direttore è il partigiano Velio Spano. Dopo la Liberazione escono, nel 1945, l’edizione genovese, quella milanese e quella torinese.

Nei primi mesi dell’anno i responsabili dell’edizione di Torino del quotidiano sono Ludovico Geymonat e Amedeo Ugolini; tra i collaboratori del quotidiano ci sono Davide Lajolo, Ada Gobetti, Cesare Pavese, Italo Calvino, Elio Vittorini, Aldo Tortorella, Paolo Spriano, Luigi Cavallo, Augusto Monti, Massimo Mila, Raimondo Luraghi, Massimo Rendina, Raf Vallone, Armando Crispino.

“l’Unità - raccontava Pietro Ingrao - dai lettori veniva conservata. E si poteva leggere all’alba, ancora assonnati, sul seggiolino di un autobus, oppure a tarda sera, tra un boccone e l’altro della cena prima di andare alla riunione di sezione, o anche a letto, sull’orlo del sonno. Oppure mettere da parte, conservare questo o quel numero, che poi non sarebbe stato letto mai, dimenticato tra i fasci di carte di un armadio: questa natura curiosa di un giornale quotidiano, che durava al di là del giorno”.

Che durava al di là del giorno e che per anni racconterà la storia del Pci, della sinistra, dell’Italia: la Ricostruzione, le grandi battaglie degli anni Sessanta, le vittorie e le sconfitte degli anni Settanta, il terrorismo, l’arrivo di Enrico Berlinguer, la sua morte a Padova, il crollo del Muro di Berlino, lo scioglimento del Pci, la nascita del Pds, dell’Ulivo, del Pd.

Una storia gloriosa con un finale tragico e un’ultima appendice quasi grottesca. Al termine di una storia recente a dir poco travagliata, nell’aprile 2018 il tribunale di Roma disponeva la messa all’asta - poi sospesa - della testata (l’annuncio sarà stato pubblicato sul sito ufficiale dell’Istituto vendite giudiziarie di Roma in mezzo tra un “Lotto unico di bottiglie di vino e birra, attrezzature e arredamento per bar” e una “Lampada infrarossi per essiccare vernici marca Infrarr Technologic star”).

“Chi avrebbe mai immaginato che una testata così bella e importante finisse all’asta? - scriveva Pietro Spataro - Chi avrebbe mai immaginato che quel nome così forte - l’Unità - che per molti è stata un simbolo di lotta e di riscatto, un nome da esibire in faccia ai prepotenti, da difendere dagli attacchi, da far circolare durante la clandestinità sotto il fascismo o da mostrare durante le manifestazioni facesse questa fine? Eppure è accaduto”.

Eppure è accaduto. Così come è accaduto che il 25 maggio del 2019 il quotidiano tornasse in edicola per un solo giorno, pubblicando un numero per evitare la decadenza della testata (pratica ripetuta anche negli anni successivi). Ed è accaduto pure che a mettere la firma sotto quel numero fosse Maurizio Belpietro, già direttore de Il Giornale, poi alla guida de La Verità.

Oggi in tanti scriveranno di questo centenario: ci saranno titoli evocativi, probabilmente venati di un po’ di nostalgia. Ripercorreremo - cosa giusta e doverosa - la storia del giornale, la nostra storia. Ricorderemo i grandi titoli del quotidiano, i grandi direttori, le grandi inchieste, le grandi firme e tutto il resto.

Non so in quanti ricorderanno, però, i giornalisti de l’Unità, senza stipendio e senza ammortizzatori da mesi. Il 18 aprile dello scorso anno il giornale tornava in edicola, ma senza i redattori dell’ultima edizione del quotidiano, quelle giornaliste e i quei giornalisti che hanno difeso e fatto vivere l’Unità anche negli anni bui e dolorosi della sua chiusura.

“Ci sono storie - recitava nell’ormai lontana estate del 2017 l’ultimo editoriale firmato dall’assemblea della redazione prima della terza e ultima chiusura - che non dovrebbero finire, per la storia che hanno raccontato e testimoniato, per quella che hanno cercato di capire, per chi ci ha creduto, per chi ci ha messo passione, professionalità e attaccamento. Questa storia, la nostra, hanno deciso di chiuderla nel modo peggiore, calpestando diritti, calpestando lo stesso nome che porta questa testata, ciò che ha rappresentato e ciò che avrebbe potuto rappresentare”.

Ci sono storie che non dovrebbero finire, a noi il compito di non dimenticarle.