Il 23 maggio 1992 si consuma la strage di Capaci, la strage mafiosa più nota e ricordata della storia italiana. Quel pomeriggio l’auto di Giovanni Falcone sfreccia lungo l’autostrada A29. La precede la Croma marrone degli uomini della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. È la prima auto a saltare in aria alle 17.57. Anche la Fiat su cui viaggiano Falcone e sua moglie Francesca Morvillo viene investita dall’esplosione. Si salva l’autista. Si salvano gli agenti della terza automobile. Muoiono tutti gli altri.

“È morto, è morto nella sua Palermo, è morto fra le lamiere di un’auto blindata, è morto dentro il tritolo che apre la terra, è morto insieme ai compagni che per dieci anni l’avevano tenuto in vita coi mitra in mano. E’ morto con sua moglie Francesca. È morto, Giovanni Falcone è morto. Ucciso dalla mafia siciliana alle 17.58 del 23 maggio del 1992”. Così scriveva la Repubblica il giorno successivo. “La più infame delle stragi - prosegue l’articolo a firma di Attilio Bolzoni - si consuma in cento metri di autostrada che portano all’inferno. Dove mille chili di tritolo sventrano l’asfalto e scagliano in aria uomini, alberi, macchine. C’è un boato enorme, sembra un tuono, sembra un vulcano che scarica la sua rabbia. In trenta, in trenta interminabili secondi il cielo rosso di una sera d’estate diventa nero, volano in alto le automobili corazzate, sprofondano in una voragine, spariscono sotto le macerie. Muore il giudice, muore Francesca, muoiono tre poliziotti della sua scorta. Ci sono anche sette feriti, ma c’è chi dice che sono più di dieci. Alcuni hanno le gambe spezzate, altri sono in fin di vita. Un bombardamento, la guerra. Sull’autostrada Trapani - Palermo i boss di Cosa Nostra cancellano in un attimo il simbolo della lotta alla mafia”.

Su l’Unità il titolo “Assassinato Falcone” è accompagnato da un primo piano del giudice e da un’immagine dell’auto distrutta dall’esplosivo. Le cronache sono firmate da Ruggero Farkas e Vincenzo Vasile, mentre l’editoriale, intitolato “E adesso le parole sono gusci vuoti”, è scritto da Luciano Violante. “Pezzi di strada percorsi insieme - scrive - Poi divisi. Poi ancora insieme. Di nuovo divisi. Qualche tentativo di parlarsi, reciproco e incerto. Adesso le parole sono gusci vuoti. Falcone è stato ucciso. I capi di mafia assolti. Il codice è sempre quello. Il super procuratore non é nominato: era urgente, ci avevano detto. La legge sul riciclaggio non funziona, ma verranno le circolari. Giovanni, sua moglie e la sua scorta stanno su un letto di marmo; l’Italia senza presidente; il governo dimissionario; il maggiore partito senza segretario. Ci saranno parole solenni. Qualcuno cadrà nella trappola delle ritorsioni. Di chi è la colpa? Perché? Era solo; era utilizzato dalla politica; voleva utilizzare la politica. Ma nelle strade è tornato il Convitato di pietra. Quello dei treni di Bologna e di Firenze. Quello delle piazze insanguinate. Quello di via Fani. Quello che uccise Mattarella e La Torre. Non deve cambiare nulla in questo paese. E quando qualcosa può cambiare, il Convitato decide di fermare tutto, perché può farlo, uccidendo. Perché qualcuno, una volta, gli dette il primo ordine; ed il secondo; ed il terzo. Poi non c’è stato bisogno di altro. Capisce da solo. Sa quando, sa dove, sa chi. Ieri, l’uomo simbolo della democrazia contro la mafia. C’è la politica dietro il cadavere di Falcone. È mafia, ma non è più solo mafia. Non è più solo mano omicida. È un atroce assassinio politico, come quello di Moro”.

“Giovanni Falcone è stato assassinato, con la sua compagna, con gli uomini della scorta, in un momento estremamente difficile nella vita politica del Paese - scriveva qualche giorno dopo l’allora direttore Renato D’Agostini sulle colonne di Rassegna Sindacale -. I loro corpi straziati sono stati gettati, come troppe volte è successo, sul difficile cammino di questa disgraziata democrazia. La vita di Giovanni Falcone è stata segnata da vittorie e sconfitte, da polemiche, da lotte politiche confessabili e inconfessabili. Se ne è andato il suo sorriso mesto, ultima difesa di un uomo consapevole e tenace (…) mentre Palermo, bagnata dalle ‘lacrime di Dio’, nel giorno del funerale grida la disperazione di un popolo sopraffatto da un potere criminale che occupa la sua terra”.

Il 25 maggio, mentre i partiti eleggono Oscar Luigi Scalfaro presidente della Repubblica, nella chiesa di San Domenico si svolgono i funerali del giudice. Forte sarà la contestazione ai politici presenti, mentre le immagini televisive delle parole e del pianto straziante della giovanissima Rosaria, vedova dell’agente Schifani: “Io vi perdono, ma voi vi dovete mettere in ginocchio”, susciteranno particolare emozione nell’opinione pubblica. Sempre il 25 maggio Cgil, Cisl e Uil proclamano lo sciopero generale, mentre poco più di un mese dopo, il 27 giugno, una manifestazione unitaria vedrà sfilare a Palermo oltre 100 mila persone contro la mafia e per la legalità.

“Un groppo in gola strozza la voce a Bruno Trentin - riporterà il giorno dopo l’Unità -a lui che da decenni grida sulle piazze i diritti dei lavoratori, quando evoca nel nome dell’amico scomparso un futuro riscatto: Caro Giovanni, quel giorno verrà…”. Caro Giovanni, quel giorno verrà. Perché “la mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”. “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”.