Globalizzazione e nazionalismo. Sono queste le parole chiave della puntata odierna di Economisti erranti, la trasmissione settimanale di RadioArticolo1. Ne hanno discusso Massimo Amato, storico dell’economia all’università Bocconi di Milano, e Riccardo Sanna, coordinatore dell’area politiche dello sviluppo della Cgil nazionale.

 

“Sulla globalizzazione si fa l’errore di applicarla uniformemente al libero movimento di uomini, merci e capitali, come se fossero risorse omogenee e comparabili. In realtà, possiamo benissimo immaginare il mondo in cui una ragionevole moderazione del movimento dei capitali non impedisca il movimento libero delle merci e renda meno necessario il movimento involontario degli uomini, che si chiama migrazione, e non è una bella cosa. Nazionalismo serve per opposto, in quanto s’immagina sia possibile utilizzare le frontiere come delle barriere e ancora una volta questo non è possibile. Cioè è difficile mostrare che nella situazione in cui siamo una chiusura autarchica possa aiutare a migliorare le condizioni economiche, quindi a ridurre le diseguaglianze, semplicemente perchè essendo padroni a casa nostra possiamo fare quello che vogliamo. In realtà, non c’è nulla che impedisca con una ragionevole articolazione fra dimensione nazionale e internazionale che le politiche interne siano politiche volte all’equilibrio della piena occupazione. Queste ultime sarebbero del tutto compatibili con un commercio internazionale, che a quel punto, non sarebbe più un’arma per risolvere le proprie incapacità, peggiorando le condizioni degli altri”, ha osservato il docente della Bocconi.

“Il nazionalismo si può fronteggiare anche con una globalizzazione di diritti e regole della stessa economia in modo più condiviso. La risposta nazionalsocialista ha a che vedere anche con il lavoro ed è una risposta che traccia un confine proprio per recuperare sovranità. Il paradosso è che a chiedere questo confine, questo diritto diseguale sono proprio i populismi in tutta Europa che si diffondono ormai da qualche anno, così come le spinte più nazionaliste. Perciò stiamo discutendo del pericolo di nuovi nazionalismi. Dal punto di vista economico, dazi e dogane non fanno altro che distinguere il vantaggio che può avere un’economia rispetto a un’altra nel competere. In generale, però, il senso è che non si può pensare a nuovi confini dell’economia e del commercio senza recuperare un minimo di democrazia. E allora il paradosso: la richiesta di nuovi nazionalismi, di nuovi confini, viene perché si sente di perdere la sovranità nel proprio Paese e si cerca di tornare indietro, di ritrovare nella nazione la risposta. In realtà, è impossibile, proprio perché la globalizzazione dei capitali, ma anche delle stesse produzioni, proprio perché non è giusto il tentativo di fermare chi fugge da territori di guerra piuttosto di chi cerca lavoro, l’idea è che la risposta non può che essere una buona globalizzazione. Questo, in antitesi alla scuola liberista che pensa invece che ognuno possa fare quello che vuole e vinca il migliore, contro quella che appunto vuol ergere muri e mettere regole aggressive nei confronti degli altri Paesi”, ha osservato l’economista della Cgil.

“Dieci anni di crisi hanno inevitabilmente creato un bisogno di maggior protezione nelle popolazioni italiane ed europee. Per ani si è detto che l’internazionalismo, l’europeismo e il nazionalismo vengono visti come elementi incompatibili, così come le economie nazionali e la convergenza verso un piano economico condiviso. In realtà la compatibilità c’è, e quando penso agli errori di intere classi politiche non mi riferisco solo agli ultimi dieci anni, ma penso alla moneta unica che avrebbe potuto mantenere in vita le monete nazionali, evitando quella complementarietà tra piano internazionale e piano nazionale. Anche qui, viste le forti analogie con gli anni Trenta mi riferisco a Keynes, che costantemente dice che se noi abbiamo una capacità di governo dell’economia interno che renda possibili politiche di piena occupazione, non abbiamo alcun bisogno di chiuderci e se abbiamo un commercio internazionale bene organizzato non abbiamo alcuna paura che ciò crei delle pressioni deflattive sull’economia nazionale. Insomma, si tratterebbe di passare attraverso una riarticolazione dei sistemi monetari: moneta internazionale per gli scambi internazionale, monete nazionali per gli scambi nazionali”, ha osservato ancora Amato.   

“L’aumento delle diseguaglianze portate dalla crisi, ma anche dalle politiche economiche dell’Europa accresce il protezionismo e la stessa quarta rivoluzione industriale può acuire lo spaesamento, la paura e quindi il bisogno di protezione. Il problema sono la regolazione dei mercati, dei capitali, delle produzioni e in qualche modo anche dei diritti e del lavoro, che richiedono anch’essi protezione di fronte alle nuove tecnologie, agli algoritmi, alla digitalizzazione. Ma la risposta non può essere il liberismo, ma un’economia sovranazionale, come lo è certamente l’Europa, come grande area commerciale tra le grandi aree del mondo che oggi devono discutere e trovare nuovi equilibri. Non c’è dubbio, però, che non può essere un’Europa diseguale e competitiva al suo interno, che lascia percepire ai propri popoli un’alternativa maledetta tra la svalutazione competitiva attraverso l’austerità e la svalutazione competitiva attraverso la propria moneta. In verità, c’è una terza possibilità, già praticata in altre epoche dalla stessa Europa all’epoca dell’unificazione della Germania e quindi alla risoluzione di quei debiti: è una scelta politica che presuppone il vero mancante, il convitato di pietra che lascia scorrazzare nazionalismi e spinte aggressive e fasciste, ovvero il governo dell’economia e del suo impatto sulla società. Quello è il termometro del peggioramento delle condizioni economiche che porta al disagio, al rancore e quindi ai nazionalismi”, ha precisato Sanna.   

“In sintesi, ci sono due politiche che possono ridurre le diseguaglianze e quindi il bisogno di protezione che dà la spinta al nazionalismo: una è una politica di buona occupazione, l’altra è una politica per l’aumento dei salari reali, che presupponga la capacità dei lavoratori di partecipare alla ricchezza che essi stessi producono. Per arrivarci, vanno tolti i vincoli istituzionali che hanno reso obbligatoria l’austerità come la via più immediata per reagire agli squilibri. E poi ci vuole la riforma più importante, la modifica della struttura monetaria, fondamentale per ogni economia”, ha concluso Amato.