Il bancario, nell’immaginario collettivo, è ancora parte della classe impiegatizia di eccellenza. Un lavoratore pieno di privilegi – con 16 mensilità – che, a confronto con qualunque altro, guadagna il doppio. È stabile. Fa un orario comodo. Un luogo comune che resiste, nonostante gli anni della crisi e la grande trasformazione del credito abbiano parzialmente stravolto il settore.

Ci sono tre ordini di cambiamenti: le modifiche strutturali del settore, la crisi, la rivoluzione tecnologica, culturale e sociale. Rispetto al primo, va ricordato che la riforma dell’ordinamento bancario italiano, con l’emanazione del Testo Unico approvato con dlgs 1° settembre 1993, ha contribuito in modo determinante alla realizzazione di un sistema del credito concorrenziale, in cui l’abbattimento di alcuni vincoli esistenti ha offerto alle banche la possibilità di operare con una logica imprenditoriale, confrontandosi con il mercato.

La riorganizzazione, anche in termini occupazionali, del credito in Italia non è quindi riconducibile al periodo della crisi, ma va collocata tra gli anni novanta e i primi del 2000. A caratterizzare questi anni sono state le molteplici fusioni, che hanno profondamente segnato, rimodellandoli, molti istituti di credito del nostro Paese. Questa prima fase, durante la quale (in gran parte) le banche hanno avuto ingenti margini di redditività (ricordiamo il Roe a due cifre), prescindeva dall’esigenza che invece segna profondamente la seconda fase: il contenimento dei costi.

Senza dimenticare la crisi che ha ridotto il Pil italiano di oltre 8 punti percentuali, devastando interi pezzi del nostro apparato produttivo. Le banche hanno subito la riduzione dei ricavi, dovuta ai bassi tassi d’interesse e agli ingenti costi per rettificare i crediti deteriorati. È stato proprio il mix tra mala gestio e crisi a portare, in alcuni casi, al dissesto economico e finanziario di alcuni istituti di credito e, comunque, a una generalizzata riduzione della redditività. Il tutto accompagnato dalla trasformazione imposta dai cambiamenti tecnici, culturali e sociali. La crisi, in questo senso, ha rappresentato un potente acceleratore.

Volendo riassumere, in questi anni si è trasformato il “chi fa che cosa”; dove, come e quando accedere al servizio bancario. Praticamente tutto. E non è ancora finita, perché nei prossimi anni il cambiamento sarà ancora più drastico e repentino. Per questo già nel 2014 il sindacato aveva avanzato unitariamente una proposta “Per un nuovo modello di banca” che fosse “al servizio del Paese”. Intanto, però, le attività meramente esecutive sono state ridimensionate o trasformate, mentre i presidi fisici si riducono a vista d’occhio e le attività direzionali diventano sempre più complesse per effetto della regolamentazione, con la rete di sportelli che si riduce e omologa il servizio.

Nel bel mezzo di questo gran caos la Fisac Cgil nazionale ha deciso di intervistare i propri iscritti e i lavoratori della categoria, lanciando una campagna di studio per approfondire alcuni aspetti della “Vita da bancario/a” (questo il nome della ricerca socio-economica condotta attraverso la somministrazione di mille questionari). Cosa si apprende dall’indagine? Innanzitutto, che il bancario di oggi si sente, nel 70 per cento dei casi, parte della classe media e pensa di avare condizioni migliori rispetto ai propri genitori. Ha una scolarizzazione medio-alta e in oltre la metà dei casi ha un’anzianità di sevizio superiore a vent’anni.

Malgrado 9 su 10 degli interpellati pensino che le loro condizioni siano peggiorate negli ultimi 15 anni (solo 5 su 10 ritengono che siano peggiorate a causa della tecnologia), il bancario valuta positivamente la propria condizione reddituale, l’orario di lavoro e gli elementi accessori: polizza sanitaria e fondo pensione. Non solo. Il lavoratore del credito dà un giudizio ottimo del rapporto con i colleghi, ritiene che la solidarietà sia forte e anche la sindacalizzazione.

Diverso il quadro che emerge dalla ricerca in riferimento agli addetti del comparto finanziario. Senza prospettive di carriera e senza possibilità di incidere sulle scelte aziendali, ciò nonostante non pensano di cercare un altro lavoro. Il problema maggiormente segnalato è relativo alle pressioni commerciali. Devono vendere, vendere, vendere. Ma le difficoltà sono legate anche al “cosa” sono chiamati a vendere. Pochi finanziamenti e pochissimi mutui. Piuttosto, prodotti assicurativi (polizze), prodotti finanziari (titoli e obbligazioni), prodotti commerciali.

Del sindacato, i lavoratori di questo comparto danno una valutazione positiva a livello aziendale, meno a livello generale, e comunque si dicono d’accordo con l’unità delle sigle, mentre vorrebbero rappresentanti dei lavoratori nei consigli di sorveglianza delle banche. Anche loro, valutano positivamente la solidarietà tra lavoratori e gli accordi fatti in questi anni in tale ambito. La ricerca della Fisac giunge a 40 anni dalla prima e ultima condotta sui lavoratori della categoria. Un passo importante – e uno strumento utile – nel mare mosso della crisi e in previsione della tempesta che sta per arrivare.