Finalmente, dopo mesi di tentennamenti che non hanno fatto bene ai mercati, il Quantitative Easing della Bce è stato ridisegnato per combattere il credit crunch e la deflazione con un duplice approccio. Da un lato, la Banca centrale incoraggia i prestiti bancari all’economia reale: si paga di più per detenere fondi presso i conti di deposito ufficiali (ora al meno 0,4%), mentre è possibile ottenere prestiti a tasso zero, ovviamente previa garanzia. Secondo i meccanismi delineati il 10 marzo, addirittura la banca potrebbe ottenere un profitto attraverso prestiti a tassi negativi (attraverso una Targeted long term refinancing operations – Tltro), fino a un massimo di meno 0,4% di sconto, se incrementa i prestiti all’economia reale, modificando le politiche di impiego.

Non solo. Eliminando l’obbligo di restituzione dei Tltro non erogati (probabilmente inefficace) e implementando un complesso sistema di incentivi, la Bce è passata dal bastone alla carota. Viste le dimensioni striminzite degli sconti, lasciateci dubitare che funzionerà. Nel corso del 2015, i prestiti alle imprese hanno smesso di contrarsi (grazie al QE?), ma sono poi rimasti fermi: ancora negativi a meno 0,8% in Italia, soltanto più 0,6% nell’Eurozona a gennaio 2016. Il fattore fondamentale che influenza le decisioni di impiego delle banche rimangono gli elevati requisiti di capitale da appostare in contropartita ai prestiti. L’opzione più redditizia e sicura rimane l’investimento in titoli di Stato. Quello che succede è che si può facilmente intermediare un profitto dalla compravendita con le banche centrali dell’Eurozona. E inoltre, visto che per i titoli di Stato non è richiesta l’appostazione di riserve di capitale, c’è un trattamento favorevole in termini contabili.

Aprendo per la prima volta in assoluto un secondo canale alternativo a quello bancario, la Bce ha avviato un programma parallelo di acquisto di obbligazioni societarie non finanziarie con un elevato rating (il cosiddetto “investment grade”). A conti fatti, si tratta del debito della grande impresa commerciale e industriale europea. Sicuramente le banche che posseggono titoli di imprese compatibili con il programma (eligible) potranno cedere i titoli alla Bce: questo le aiuterà a migliorare il proprio profilo di rischio. Tuttavia, poiché si tratta di crediti di qualità, è difficile pensare che questo provvedimento possa bastare a far ripartire il credito, considerato il problema dei mille miliardi di euro di crediti deteriorati che intasano il sistema bancario.

L’aspetto di novità sta nel fatto che anche le imprese potranno emettere nuovo debito, con la garanzia implicita che la Bce sarà compratore di ultima istanza. Esattamente com’è accaduto con il QE sui titoli pubblici, dovrebbe essere proprio la garanzia a consentire una forte riduzione dei costi di finanziamento pagati dal sistema delle imprese, al di là degli acquisti diretti, che potrebbero contare su un bacino di al massimo 550 miliardi.

Non sorprendentemente, ne beneficeranno maggiormente quei Paesi dove la grande industria è preponderante: alcune stime rilasciate in via preliminare dalle banche di investimento indicano 122 miliardi di obbligazioni tedesche acquistabili e 209 miliardi di aziende francesi. Insieme, questi due Paesi contano per oltre il 60% dei titoli eligible. E l’Italia? Si piazza solo al terzo posto, con 69 miliardi di titoli eligible, vista la prevalenza del tessuto delle piccole-medie imprese. Ma ci sono altri fattori da considerare: la liquidità del mercato corporate è molto inferiore rispetto a quella dei titoli pubblici; si può ragionevolmente presupporre che il ritmo degli acquisti rimarrà contenuto, tra i 3 e i 6 miliardi al mese; si consideri che ora il QE sui titoli pubblici si attesta sugli 80 miliardi al mese. Sicuramente il programma potrebbe crescere di dimensione e incisività se aumentassero le nuove emissioni delle imprese, al momento intorno ai 3-4 miliardi al mese, ma comunque non riuscirebbero a cambiare di molto la scala delle operazioni. Si può pensare che i nuovi flussi di liquidità in arrivo direttamente nei bilanci delle imprese potrebbero stimolare “teoricamente” gli investimenti. Ma è proprio così?

Anche qui si sollevano dubbi consistenti. Guardando all’esperienza storica di tutti i Paesi dove sono state varate negli ultimi 6 anni misure di allentamento monetario di vario tipo, le imprese hanno preferito utilizzare la liquidità in eccesso per ridurre la propria esposizione debitoria, o aumentare i dividendi agli azionisti, anche attraverso riacquisti di azioni proprie (gli share buyback). Nessun cambiamento significativo è stato rilevato sul livello degli investimenti nella produzione o nella ricerca. Si tratta peraltro di strategie che sono piaciute ai mercati: infatti, se l’impresa riduce il capitale, il titolo cresce di valore, dato che aumentano i profitti per azione.

Anche i manager quindi incassano lauti guadagni con le stock option. Emblematico è il dato relativo all’economia giapponese: con la partenza del QE nipponico nel 2013, i buyback sono esplosi da mille miliardi di yen nel 2012 a oltre 4mila miliardi nel 2015, alimentando senza soste l’enorme bolla azionaria. Di contro, gli investimenti in capitale fisico sono rimasti stagnanti, sorprendentemente insensibili agli imponenti stimoli monetari. D’altronde, anche sul mercato americano i buyback sono cresciuti durante i periodi di QE, passando dai 137 miliardi di dollari del 2009 ai 570 del 2015.

E nell’Eurozona? Il fenomeno, per quanto ancora limitato, è però in crescita: si registrano 200 miliardi di dollari di riacquisti di azioni proprie nel 2015, circa un più 7% in un anno. Da aprile-maggio le grandi imprese potranno accedere dunque per via diretta alla liquidità Bce, aumentando l’indebitamento e riducendo il capitale con operazioni di buyback. Le grandi manovre sono già iniziate: Deutsche Telekom ha annunciato una prima emissione “dedicata” alla Bce, mentre si registra un picco di nuove emissioni di obbligazioni corporate investment grade (più 30 miliardi nelle prime due settimane di marzo) che cercano di sfruttare le condizioni finanziarie improvvisamente favorevoli. Ma la piccola manifattura continuerà a dover confrontarsi con un sistema bancario diffidente nel concedere credito. Non credo, purtroppo, che questo sia l’ambiente ideale per favorire la ripresa economica.

Marcello Minenna è docente di Finanza matematica alla Bocconi di Milano