Una delle donne più potenti al mondo, Christine Lagarde, alla guida del Fondo monetario internazionale, parlando delle diseguaglianze economiche, ma non solo, tra uomini e donne ha recentemente affermato che "c'è una cospirazione contro le donne". Poco prima un'altra donna, Patricia Arquette, ha pronunciato nella notte degli Oscar un vero e proprio discorso politico, in difesa di tutte le donne: "A ogni donna che ha partorito un figlio, a ogni mamma-contribuente, e cittadina: abbiamo lottato per la parità di diritti di tutti gli altri. Ora tocca a noi. È ora di ottenere la parità dei salari una volta per tutte, per le donne americane".

Questi due recenti fatti di cronaca, hanno acceso i riflettori su una delle maggiori storture con le quali la nostra categoria si misura da tempo attraverso l’esercizio della contrattazione di genere. Sebbene sia ormai patrimonio comune il fatto che il 15 per cento del Pil potenziale non viene realizzato in Italia, a causa delle discriminazioni contro le donne, nessuna misura è stata messa in campo per correggere strutturalmente questa tendenza.

Basta guardare con un’ottica di genere gli effetti che il Jobs Act avrà sull’occupazione femminile per comprendere come sia diametralmente opposta la direzione intrapresa da questo governo rispetto alle necessità di costruire politiche di pari opportunità in un contesto in cui la crisi ha ampliato il gap esistente tra occupazione femminile e maschile, in termini di opportunità e di salario.

Se a questo aggiungiamo l’assenza di misure strutturali in grado di costruire politiche di welfare, che supportino concretamente la conciliazione e le condizioni di accesso alla pensione (particolarmente gravose, perché non guardano alla reale condizione di milioni di donne che sempre più difficilmente troveranno un’occupazione stabile durante la loro vita lavorativa), comprendiamo quanto complesso sia il quadro in cui il sindacato si trova ad affrontare questi problemi.

Per questo motivo il nostro ruolo diventa oggi ancora più determinante per colmare il gap salariale tra uomini e donne, per promuovere l’occupazione femminile e le opportunità di crescita professionale delle donne. Per farlo, è necessario partire dall’analisi di cosa stia accadendo nel mondo del lavoro e dalla comprensione di come la destrutturazione dei processi lavorativi e del diritto del lavoro si colleghi con le discriminazioni.

La nostra categoria rappresenta settori in cui la presenza delle donne è particolarmente accentuata, il che ci ha consentito (e ci consente) costantemente di misurarci con il tema della contrattazione di genere e di provare a sperimentare soluzioni che provino a correggere o quantomeno a contenere i fenomeni discriminatori. È oormai noto il “caso Poste” di un paio di anni fa, quando lottammo per far rivedere un accordo sul Pdr (premio di risultato) firmato da altre 4 organizzazioni sindacali, che escludeva dal bonus presenza le lavoratrici in astensione obbligatoria per maternità, perché “colpevoli” di essere assenti per il periodo previsto dalla legge.

Quella battaglia fu vinta, e a essa continuano ad aggiungersene altre, cogliendo una nuova sfida, che è quella di spostare l’attenzione verso quel mondo dai contorni indefiniti in cui operano le lavoratrici atipiche o quelle “genuinamente autonome”. Abbiamo cominciato a fare proprio questo analizzando i dati della ricerca “L’editoria invisibile”, condotta dalla Slc per conoscere più a fondo la condizione delle lavoratrici e dei lavoratori del settore editoriale, composto per il 73,9% da donne (su un campione di oltre 1.000 lavoratori intervistati), insieme ai quali abbiamo cominciato a costruire politiche rivendicative per far accedere queste lavoratrici e questi lavoratori, fino a oggi esclusi, agli istituti di welfare contrattuale (sanità e previdenza integrativa).

Se guardiamo agli aspetti retributivi, le lavoratrici di questo settore sono doppiamente penalizzate, perché a una “precarietà esistenziale”, data dalle caratteristiche del lavoro svolto, che difficilmente prevede la subordinazione, sommano un gap in termini di retribuzione particolarmente pesante: 6 lavoratrici su 10 (il 58,7%) percepiscono una retribuzione lorda annuale inferiore ai 15mila euro a fronte del 46,3% dei maschi nella medesima condizione (vi sono, dunque, più di 12 punti percentuali di differenza, a svantaggio della componente femminile).

Per far fronte a questo tipo di discriminazione, abbiamo inserito nel ccnl grafici editoriali una specifica clausola che vincola le parti all’avvio di un confronto per la definizione dei minimi contrattuali per le lavoratrici e i lavoratori del settore, raggiungendo un primo obiettivo che è quello di garantire condizioni di partenza uguali per tutti, coerenti con quelle relative alle lavoratrici e ai lavoratori subordinati.

Infine, come categoria stiamo provando ad avviare un ragionamento più avanzato riguardo alle tematiche della salute, ritenendo che esiste anche un altro tipo di discriminazione, che va combattuta, e che riguarda l’assenza di attenzione su patologie “di genere”, che – oltre a rappresentare un problema a livello fisico – spesso determinano, in quanto non riconosciute, l’arresto delle progressioni di carriera, se non addirittura la perdita o l’abbandono del lavoro.

Una donna su 10 è affetta da endometriosi, una patologia che nelle forme più gravi diventa invalidante, rispetto alla quale non c’è adeguata informazione. È evidente, quindi, che senza il “riconoscimento” di questa condizione, già – per fare un esempio – le assenze delle lavoratrici che ne sono colpite finiscono per essere penalizzanti. Non solo. In assenza della possibilità di “codificare” questa malattia, anche il ruolo della contrattazione (in questo caso di secondo livello) diventa più complicato. Su questo tema il 31 marzo organizzeremo un’iniziativa pubblica, insieme alla Cgil, per chiedere anche in questo caso stessi diritti e stesse opportunità, perché se è vero che 'la disuguaglianza non paga', pensiamo sia arrivato il momento di chiederne il conto.

* Segretaria nazionale Slc Cgil