Negli ultimi mesi, in concomitanza con il ricorso coatto all’istituto da parte di milioni di lavoratori alle prese con le misure di contenimento del virus Covid-19, il tema dello smart working è divenuto centrale, nel dibattito politico, sindacale, pubblico. Si può dire che ne stiano parlando un po’ tutti, spesso con approcci parziali e a volte con una buona dose di approssimazione che porta a entusiasmi facili e ad altrettanto facili demonizzazioni.

Il ‘povero’ smart working altro non è che una modalità di lavorare, definita per legge nel 2017 che, dopo anni oscuri, attraversa oggi una fase d’imprevista e immeritata notorietà. Lo si potrebbe definire uno strumento che si qualifica come positivo o negativo, a seconda dell’utilizzo. L’utilizzo che se ne è fatto nella situazione di emergenza sanitaria, è ed è stato sbagliato, ad esempio, tanto da snaturarne ruolo e funzione. Pertanto, il lavoro agile si è trovato a divenire un lavoro imbolsito, lento e affannoso, consumato per intero nelle abitazioni, senza controllo effettivo della sua quantità e qualità, determinando una difficoltà estrema, soprattutto per le donne, a perseguire la finalità per cui era stato concepito dal legislatore: la conciliazione.

Va corretto subito, quindi, tale deficit percettivo che ci consegna uno spaccato fedele della realtà di questi giorni, ma che ci allontana dall’oggettività, che è però condizione necessaria per provare non solo a esprimere un giudizio, ma anche a ipotizzare una serie d’interventi per riportare lo smart working nel suo alveo naturale.

Non siamo di fronte a un dispositivo di protezione individuale per evitare che le persone affollino mezzi pubblici e uffici; non siamo in presenza di un ammortizzatore sociale; non siamo alle prese con un supplizio di Tantalo per lavoratrici assediate da figli espulsi, loro malgrado, da scuole di ogni ordine e grado, associazioni sportive, ludoteche. Perciò, dato per assodato che quello che si è diffuso nelle nostre case è un lavoro a domicilio 4.0, bisogna riavvolgere il nastro per poter immaginare quale potrà essere il futuro del lavoro agile, oltre la pandemia.

Prima del 23 febbraio 2020, le esperienze di smart working erano abbastanza limitate, ma tutte con caratteristiche ben precise: lavoratore e datore siglavano un accordo individuale che stabiliva contenuti e modalità dell’esercizio della prestazione da remoto; questa riguardava pochi giorni al mese, ben definiti e programmati, che poteva essere svolta da qualsiasi posto fuori dall’ufficio, non necessariamente da casa. La contrattazione collettiva interveniva spesso per definire una cornice di tutele, che poi trovavano corrispondenza nei contenuti delle intese individuali. Molta attenzione veniva data al diritto alla disconnessione e alla tutela del lavoratore, rispetto al rischio di subire controlli a distanza invasivi da parte del manager o responsabile. Il lavoratore veniva reso edotto sul suo orario di lavoro, che rimaneva quello previsto dal contratto nazionale di riferimento, con la non secondaria differenza che, lavorando per obiettivi, la sua articolazione era del tutto in mano a lui.

Anche da queste poche nozioni generali, si comprende come il lavoro agile potesse essere un’innovazione non priva di vantaggi per chi vi accedeva. Avere a disposizione un pacchetto limitato di giornate, garantiva la possibilità di programmare in quelle giornate, oltre che il lavoro, anche il resto, senza perdere riferimenti e bussole che il lavoro prestato in maniera tradizionale fornisce, con i suoi rituali consolidati e le sue pause cadenzate, utili per orientarsi nella gestione sempre problematica del tempo. Le condizioni pattuite e messe nero su bianco in un accordo, magari figlio di un quadro di regole più generale negoziato da sindacato e impresa, offrivano agli smart worker una discreta serenità derivante dalla consapevolezza di cosa si stava facendo, per quale periodo e con quale finalità.

C’è poi un aspetto che viene colpevolmente sottaciuto da tutti i più o meno improvvisati ‘smartworkologi’ della Fase 2: la formazione finalizzata al cambio di paradigma organizzativo, che è innanzitutto un mutamento del rapporto che si ha con la propria consolidata attività lavorativa.

Per cogliere le potenzialità insite nell’istituto, bisogna abbandonare i rassicuranti lidi dell’esecuzione più o meno automatica della propria prestazione e avventurarsi in quelli ignoti dell’autorganizzazione e dell’autodeterminazione del proprio orario, impresa quest’ultima, tutt’altro che banale. Non basta, tra l’altro, formare i lavoratori, ma bisogna anche impartire una formazione ai manager che faticano a gestire in maniera dinamica e flessibile il controllo sull’operatività altrui, però essenziale, rimane il cambio di passo nella mentalità di chi lascia l’ufficio per lavorare da casa o da altra postazione a sua scelta.

Il rapporto con il tempo va ricostruito, come va rigorosamente stabilita una scala di priorità delle cose da fare; va sradicato il rischio/tentazione, di essere sempre connessi, sempre reperibili; la delega si deve sostituire al compito esecutivo, il risultato alla mera rendicontazione delle e-mail evase. Lo smart working deve produrre uno scatto evolutivo nella professionalità, dotandola di autonomia e tensione alla crescita costanti; tale evoluzione deve poter essere riconosciuta in termini economici e valorizzata sul piano delle progressioni di carriera.

La contrattazione deve riappropriarsi del proprio ruolo, negoziando questo pezzo come parte di un più complessivo disegno dell’organizzazione del lavoro nella fase della ripartenza, inserendolo in un più ampio processo di cambiamento, che tenga in equilibrio la gestione degli spazi con le determinazioni dei tempi. La sfida del sindacato è quella di fare rientrare in un piano più complessivo di rivendicazione collettiva quello che, anche per via normativa, viene considerato un patto individuale; solo in questo modo, si potrà far sì che l’attuale alto tasso di gradimento che molti sondaggi, più o meno scientifici, ci consegnano rispetto al ricorso al lavoro agile nella Fase uno, da parte dei diretti interessati, sia un gradimento consapevole, ponderato, duraturo e non basato sul senso di rassicurazione che ‘lo stare a casa’ ha offerto in settimane, in cui uscire era considerato altamente pericoloso.

Pensiamo alla pubblica amministrazione e a quali effetti può avere la remotizzazione del lavoro, anche nel rapporto con l’utenza, quale rivoluzione sul piano della fruizione di servizi, che nel senso comune sono stati spesso associati a code, burocrazia, tempo (ancora lui…) perso. Se si vuole passare dai convegni sulla rivoluzione digitale - alla rivoluzione digitale praticata -, se davvero si vuole misurare la nostra capacità di governo dei processi attraverso l’esercizio del nostro ruolo di attore collettivo, questa sfida va pragmaticamente colta, oltre le facili demonizzazioni e gli altrettanto facili entusiasmi.

Cristian Sesena è coordinatore dell’Area Contrattazione e mercato del lavoro della Cgil nazionale