Le questioni della legalità e dello sviluppo locale, i mutamenti intervenuti nella struttura sociale e produttiva, il problema della povertà. E ancora, le tendenze dell’economia e il divario rispetto alle regioni più ricche, i vantaggi e/o i rischi derivanti dal federalismo, il ruolo delle istituzioni e della cultura. Questi, in sintesi, i temi del convegno – titolo: “Il Mezzogiorno dentro la crisi” – che la Cgil ha organizzato a Napoli, il 17-18 novembre – il 19, a seguire, una manifestazione pubblica a Villa Literno – sui caratteri nuovi che la crisi dell’economia e della società meridionale oggi presenta, le opportunità di ripresa e gli impegni che la confederazione si appresta ad assumere. Una discussione che la Cgil ha realizzato insieme ad alcuni studiosi, da sempre impegnati sui temi del riscatto civile del Mezzogiorno, allo scopo, come ci spiega la segretaria confederale Vera Lamonica (vedi l’intervista), di aggiornare appunto la propria analisi, di conoscere meglio per meglio focalizzare gli obiettivi di lavoro da mettere a punto. Proviamo qui a mettere in ordine alcune delle riflessioni che durante l’appuntamento si sono confrontate.

Un passo indietro
Per capire come si sia arrivati alla difficile situazione odierna è necessario innanzitutto un passo indietro: impossibile comprendere l’oggi senza interrogarsi su quanto è accaduto nel più recente passato. A giudizio di Adriano Giannola, docente nel capoluogo campano, presidente della Fondazione Banco di Napoli, per comprendere il presente, prima che agli sprechi o peggio, bisogna risalire alla strategia adottata dopo la fine dell’intervento straordinario, nei primissimi anni 90, alla convinzione, propria delle politiche avviate nella seconda metà del passato decennio, che si potesse replicare nel Sud l’esperienza dei distretti. “La società meridionale – osserva – mostra di avere oggi ‘regole’, diciamo così, diverse rispetto al resto del paese: una conseguenza della malapolitica e della cattiva amministrazione, certo, ma anche della filosofia che ha governato la nuova politica di programmazione dal 1992 in avanti. Quella politica partiva da presupposti errati, dall’idea che potesse funzionare anche nel Mezzogiorno la filosofia dello sviluppo autocentrato e della terza Italia: i risultati che si sono visti dal ’98 in poi (fino a metà dagli anni 90 c’è un totale immobilismo) sono sotto gli occhi di tutti”.

Diverso l’approccio di Paola De Vivo, docente all’Università di Napoli. “Dal ’92 al ’95 – dice – il Mezzogiorno si ritrova, è vero, senza politica. Dal Pil all’occupazione tutti gli indicatori ci mostrano un complessivo arretramento”. Ma in seguito, nella seconda metà degli anni 90, quando si avvia l’esperienza della programmazione negoziata, si tenta perciò di qualificare la spesa pubblica, cominciamo ad avvertire alcuni segnali positivi: le esportazioni, soprattutto, mostrano una certa vivacità”. “Dopo – prosegue –, con l’inizio degli anni 2000, il trend diviene di nuovo negativo. E non sono solo i settori produttivi che vanno male, è tutta la società che peggiora: non c’è più solo una battuta d’arresto, c’è una vera e propria deriva”. La ragione? “Si è fermato il treno in corsa – risponde la nostra interlocutrice – . Il processo della programmazione negoziata ha subìto uno stop: delegittimata dalle controversie in seno al centrosinistra già a partire dal ’98, quando poi con Agenda 2000 prendono avvio i flussi di spesa e si presentano le prime difficoltà nell’uso degli strumenti e nel loro coordinamento, si accusa subito detta politica di inefficacia. Al contrario di quel che accade nel resto d’Europa, dove si registrano invece risultati positivi”. Conclusione? “Il problema non è lo strumento in sé – risponde De Vivo – ma come viene gestito. Se lo utilizziamo per costruire il consenso anziché lo sviluppo, non andiamo da nessuna parte, è evidente. Ma lì dove la gestione ha guardato al bene comune, i risultati si son visti. Non abbiamo avuto solo sprechi, insomma”. Sul tema degli sprechi interviene con passione Gianfranco Viesti, docente a Bari. “Una vulgata rozza, mai un dato a sostegno.

Dimenticando qualche fatto fondamentale: che la dimensione media dei progetti finanziati, al Nord come al Sud, è la stessa. O che la frammentazione, altro motivo largamente utilizzato, è uguale per tutte le aree del paese”. “Certo, ci sono stati, la differenza però – prosegue – è che nel Centro Nord c’è un capitalismo municipale efficiente: per intendersi, il ciclo dell’acqua, piuttosto che quello dei rifiuti, funziona. Nel Sud, da questo punto di vista, il deficit è invece grande”. “Ma, al di là di questo – prosegue portandoci alle urgenze più immediate – è che l’attuale governo ha abrogato, completamente abrogato, le politiche di sviluppo. Oggi abbiamo interventi finanziati ad hoc fuori da qualsiasi quadro di programmazione e di indirizzo pubblico. L’esecutivo utilizza il Fas, importante si badi sia per il Sud che per il Nord, come argent de poche per qualsiasi intervento, giusto o sbagliato che sia. E la Confindustria, dal canto suo, mentre da un lato si lamenta per la mancanza di un quadro selezionato di interventi, dall’altro chiede il credito d’imposta, cioè finanziamenti a pioggia”.

La crisi attuale
“Sull’oggi Ugo Marani, docente a Napoli e presidente dell’Ires Cgil Campania, tiene a segnalare quel poco di positivo che si intravvede. “I numeri, è vero, sono sconfortanti. Tuttavia, dei segnali di tenuta ci sono, non tutto sta andando alla deriva, com’è ormai radicata convinzione comune. Il Mezzogiorno, tra mille contraddizioni, esprime un discreto numero di medie imprese che comunque riescono a tenere. Non parliamo di grandi numeri, non si va oltre le centocinquanta unità, e tuttavia siamo di fronte a imprese capaci di stare sui mercati esteri”. “Il Mezzogiorno è la parte debole di un paese debole – aggiunge Viesti –. Il punto vero è questo”. E aggiunge, tornando a una sua tesi che ha fatto molto discutere: “Non siamo più di fronte a una questione meridionale. Abbiamo a che fare con una questione nazionale, è l’intero paese che è fermo. Poi, certo, il Sud presenta una maggiore problematicità, il territorio meridionale è più fragile, ma tutta la vicenda degli ultimi anni mi conferma nell’idea che siamo di fronte a un problema che riguarda l’Italia nella sua interezza. Sottovalutiamo troppo spesso il fatto che il Centro Nord sta conoscendo il momento più difficile del dopoguerra. Il declino della produttività, addirittura, in quell’area è paradossalmente più forte: il Centro Nord, oggi, è indietro, sempre più indietro, rispetto al resto d’Europa”. Questo sotto il profilo economico. Non diverso, aggiunge, è il discorso sulle sofferenze sociali. “Si pensi alla criminalità. Non c’è dubbio che le bande che imperversano nella grande conurbazione napoletana e campana siano una specificità di quel territorio. Ma le altre mafie, quella calabrese e siciliana, sono presenti anche nel nord del paese, purtroppo. La ’ndrangheta, con i capitali enormi che muove, non è un problema calabrese, è un problema nazionale”. E ancora: “Si dice: la Salerno-Reggio Calabria non si farà mai; come se altrove le grandi infrastrutture fossero già una realtà. Il raccordo autostradale per la Malpensa è stato realizzato con dieci anni di ritardo, quando il progetto Malpensa ormai era al tramonto. Poi il Nord, naturalmente, ha anticorpi più forti, sopporta questo stato di crisi meglio”.

Il contesto
Al di là di questo – della discussione sull’esistenza o meno di una seppur aggiornata questione meridionale – restano nel Sud del paese problemi giganteschi. Come il quadro di disgregazione sociale in cui l’impresa è costretta muoversi. “Prima – osserva Marani – il confine era tra chi ‘faticava’ e chi no. Oggi il confine si è fatto assai più labile. Oggi il passaggio alla disoccupazione e alla povertà è una minaccia che grava su un numero sempre più grande di persone. Con l’emergere di due fenomeni assai preoccupanti: l’emigrazione dei laureati, la fuga verso altri lidi delle forze di lavoro maggiormente scolarizzate, l’assenza di speranza per i ventisette-ventottenni, per tutti quei giovani, in sostanza, che finito il classico percorso università, master, magari un secondo master e via discorrendo, non trovano uno straccio di lavoro”. “Forse non ci si rende conto – aggiunge Paola De Vivo – che c’è un mare di giovani che, quando ha la fortuna di trovare un lavoro, lo fa per due soldi. La paga di un ragazzo, di una ragazza che lavora in un esercizio commerciale, a Napoli e nell’hinterland, troppo spesso non va oltre i 500 euro al mese. Questa è la realtà. Siamo tornati terribilmente indietro, a una situazione in cui l’allargarsi della disoccupazione e l’impoverimento, insieme all’assenza dello Stato, producono sempre più facilmente il passaggio all’illegalità”.

“L’altra faccia di tutto questo – continua – è un fenomeno preoccupante: la progressiva scomparsa del ceto medio e, insieme, la fragilità della società civile. Lo sforzo di questi anni è stato appunto quello di far crescere una società civile; se si vuole: il capitale sociale. Il fallimento è anche responsabilità degli intellettuali. Nel Sud, mentre si impegnavano tante energie per cambiare, abbiamo avuto il formarsi di un ceto di professionisti cresciuto intorno alle consulenze. Le consulenze naturalmente servono, non vorrei essere fraintesa. Ma se la consulenza è scambio, non si costruisce nulla”. La prospettiva Che fare, allora? Qualsiasi ragionamento sulla prospettiva non può non misurarsi con la questione del federalismo. Al riguardo Giannola, non è una novità, ha molti dubbi. Proprio su Rassegna, l’estate scorsa, avevamo raccolto le sue preoccupazioni (vedi il n. 23, 2008).

Rispetto alle intenzioni sbandierate dal centrodestra durante le campagna elettorale i progetti poi varati hanno segnato un indubbio ridimensionamento; la base della discussione, si ricorderà, era il disegno di legge della Regione Lombardia che, attuato, avrebbe portato dritto – non è un’esagerazione – alla rottura dell’unità nazionale. Ora non è più così, ma il nostro interlocutore resta ugualmente dubbioso: “Certo – osserva – il ddl del governo è molto annacquato rispetto alle intenzioni iniziali. Ma i problemi, proprio a causa della vaghezza, restano tutti. Sulla perequazione, ad esempio, così come sulle sulle politiche aggiuntive o la questione dei costi standard dei servizi, che pure sembra meglio impostata. Insomma a me sembra una conversione tattica, con segnali per altro verso pericolosissimi. Prima c’era il discorso certo preoccupante dell’Iva regionale, adesso si punta sull’Irpef e questo peggiorerebbe ancor di più la situazione”. “In ogni caso – avverte De Vivo – il federalismo, se non è accompagnato da un progetto di rilancio del Sud, può diventare davvero un rischio”. E con questo siamo alle conclusioni: agli impegni che bisognerebbe perseguire. La Cgil li indica con chiarezza: una spesa ordinaria correttamente intesa, risorse che siano aggiuntive non più solo sulla carta e, insieme, un rinnovamento profondo della qualità delle istituzioni, quindi della politica. Obiettivi su cui i nostri interlocutori concordano, soffermandosi soprattutto su un punto: la buona politica, la buona amministrazione.

Di nuovo Viesti: “Bisogna costruire un consenso sull’opportunità di una politica per il Mezzogiorno. Le politiche per il Mezzogiorno sono un bene per tutto il paese. Ma il governo locale è decisivo”. “Visto lo stato della discussione – aggiunge Giannola – bisognerebbe chiedersi a cosa serve il Mezzogiorno. Se si è convinti che esso serva ancora a qualcosa, e se si è convinti che una questione meridionale persista e che resti a tutt’oggi irrisolta, allora è necessaria una politica altra, un generale rinnovamento delle classi dirigenti”. E Marani: “Va detto con chiarezza. C’è una cattiva classe politica. Bisogna spiegare, una volta per tutte, quali sono i problemi che crea, quali le vie, se così si può dire, per le quali blocca lo sviluppo. E trarne le debite conseguenze”. Insomma, parafrasando il filosofo: “Solo una (buona) politica ci può salvare”.