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Antonio è un infermiere di terapia intensiva, dopo la seconda notte di turno era stanco, ma pensava dipendesse dal troppo lavoro. Poi è arrivata la febbre alta e la difficoltà a respirare. Il tampone ha dato esito positivo. Stava male, molto, allora è stata chiamata l’Usca: ci ha messo due giorni per arrivare, con “strumenti quasi giocattolo” e solo fonendoscopio, saturimetro e apparecchio per misurare la pressione. Niente ecografo portatile per controllare la situazione polmonare. Finalmente è stata prescritta la terapia e nulla più. Passa una settimana e sembra andare meglio, Antonio tira un sospiro di sollievo e poi arriva la mazzata: i sintomi ritornano con maggior violenza.
Questa volta per ricevere la visita dell’Usca ci vogliono tre giorni e decidono di portarlo in pronto soccorso. Lì è accolto dai suoi colleghi che si prendono cura di lui. Decidono di provare i nuovi test rapidi appena arrivati, che la Regione ha deciso di utilizzare per gli screening periodici sul personale, e -sorpresa – l’esito è negativo per ben due volte. Fatto il tampone molecolare il risultato è positivo con un’altissima carica virale. Ora Antonio sta meglio, spera che il prossimo tampone sia positivo, ma gli rimane l’amarezza di un’assistenza assai lacunosa, la preoccupazione che i test rapidi vengano davvero utilizzati mettendo a rischio la salute del personale e dei pazienti. “Ho finalmente capito - racconta - la paura che leggevo negli occhi dei malati non sedati che accudivo in terapia intensiva. È la stessa che ho provato io in alcuni momenti. Un’esperienza davvero terribile”.
Questa è solo una delle tante storie che si potrebbero raccontare, mentre aumenta la preoccupazione per la diffusione dei contagi e la tenuta delle strutture: venerdì 6 novembre i numeri attestavano un aumento di positivi nelle ultime 24 ore di 3.297 unità, per un totale di 43.937. Per fortuna le terapie intensive sono piene solo al 16%, l’occupazione dei reparti ordinari arriva al 20 per cento del totale dei posti disponibili. Ma oltre 400, al momento, sono gli operatori sanitari colpiti dal coronavirus.
“La situazione dei posti letto è buona", spiega Paolo Righetti, segretario regionale della Cgil, perché "grazie alle norme contenute nel decreto Rilancio la Regione ha provveduto a implementare la capienza dei reparti Covid, realizzando un'efficace programmazione. Il problema è che mancano gli uomini e le donne che li facciano ‘funzionare’, da soli servono a poco”.
A preoccupare, e molto, sono due questioni: l’efficacia dei test rapidi utilizzati in Regione e, soprattutto, la tenuta emotiva e psicologica di operatori e operatrici. “Molti di quelli che hanno lavorato nei primi mesi della pandemia", afferma Ivan Bernini, segretario della Fp Cgil Veneto, "hanno sviluppato patologie da stress correlato e temiamo possano non essere in grado di reggere a una seconda ondata così violenta. Avevamo chiesto che venissero supportati da team di specialisti, ma nulla si è fatto. Per altro, a mancare nel sistema sanitario regionale sono anche gli psicologi”.
E sì, anche in Veneto, come nelle altre regioni del nostro viaggio, qual che manca di più è il personale. È la stessa Regione a denunciare che per affrontare l’emergenza ci vorrebbero 2.500 nuovi operatori e operatrici. “Ci servono anestesisti e pneumologi, ha affermato il presidente Zaia, la situazione è pesante per la mancanza di personale. E non ce ne sono proprio, non è che si siamo dimenticati di assumerli”. Conferma il segretario della Fp che i concorsi per assumere sia infermieri sia medici sono stati banditi ma non si trova personale da reclutare, spesso le stesse persone hanno partecipato a più concorsi e quelli arrivati da altre regioni vengono chiamati dal proprio territorio di residenza, aggravando così la situazione. E e anche qui, come in Lombardia, quelli in servizio nelle Rsa si trasferiscono negli ospedali lasciando sguarnite le strutture per anziani.
Il Veneto, nella prima fase, si distinse per la capacità di screening, oggi la situazione rischia di sfuggire di mano. Secondo Bernini “Il piano di prevenzione predisposto a luglio prevedeva 500 nuove assunzioni, non sappiamo quante realmente ne sia state fatte. Quel che sappiamo, invece, è che i dipartimenti di prevenzione sono sotto stress, tanto che per seguire i tracciamenti vengono lasciate indietro le attività legate alle campagne vaccinali”. E se ce ne fosse bisogno, a conferma di questa preoccupazione è arrivata una proposta di Zaia che vorrebbe utilizzare i veterinari per somministrare i tamponi: “Anche gli uomini sono mammiferi”, ha detto. Rimane il dubbio se sia una battuta o una proposta reale. Se gli ospedali reggono, a essere in emergenza è la sanità di territorio, conclude Righetti: “Sull'assistenza domiciliare siamo davvero indietro, non esiste nemmeno un report regionale su quante siano le Usca e se funzionino”.