Le pensioni delle donne continuano ad essere molto più basse rispetto a quelle degli uomini e anche le regole che governano il funzionamento del sistema previdenziale risentono fortemente di un gap di genere. Si dovrà tenere conto di questo nel cantiere pensioni che sta per riaprire: i sindacati sono in attesa della convocazione del ministro del Lavoro, Andrea Orlando mentre sono già partiti i tavoli tecnici. La pandemia ha accentuato il problema perché come abbiamo visto sono state proprio le donne a pagare il prezzo più alto della crisi da Covid 19: licenziamenti, aumento del part time obbligato, dimissioni dovute al carico di cura di famigliari malati o non autosufficienti.

Ma il gap non è neppure una novità. “I trattamenti pensionistici che vengono erogati ai lavoratori al termine del loro periodo di attività lavorativa sono notevolmente differenziati secondo il genere”, si legge in un’analisi sul tema del 2019 a cura di Ezio Cigna, responsabile dell’Ufficio delle politiche previdenziali della Cgil. Le ragioni sono diverse: il tasso di partecipazione femminile nel mercato del lavoro è più contenuto, le donne hanno carriere professionali più discontinue e accedono a posizioni ben remunerate in misura inferiore rispetto agli uomini. “Questo determina come risultato il fatto che le donne beneficiano di pensioni più basse degli uomini, e la loro situazione risulta essere negativa anche nel confronto con altri paesi europei. Le condizioni nel mercato del lavoro sono i fattori che creano le differenze di genere che si riflettono nei trattamenti pensionistici. Infatti le differenze all’ interno del mercato del lavoro sono presenti in termini di numero di occupate, di tipologia di contratto di lavoro e anche di differenza retributiva. In media, negli ultimi anni, la retribuzione delle donne è stata inferiore a quella degli uomini di circa il 30%.

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Se 16 punti vi sembran pochi
Se si guarda ancora più indietro, a 15 anni fa, gli uomini rappresentavano il 55% del totale dei percettori di pensioni e assorbivano il 64% del reddito complessivo. Nel 2007 l’importo medio dei redditi pensionistici da vecchiaia o anzianità era di 16.175 euro. All’anno, gli uomini percepivano 18.773 euro, le donne 13.017, con un differenziale di 16 punti percentuali a favore degli uomini. Il 54% delle pensionate percepiva prestazioni inferiori ai mille euro.

Venendo più vicino ai nostri giorni, notevoli differenze di genere si percepiscono dai dati Inps sulle domande di Ape sociale e di uscite anticipate dovute ai cosiddetti “lavori precoci”. Alla fine dello scorso anno le domande per l’Ape sociale erano così distribuite. Per quanto riguarda la categoria “lavoratori disoccupati” le richieste delle donne sono state 1801, quelle degli uomini 2360. Per la categoria “lavoratori che assistono persone con handicap in situazione di gravità”, le richieste delle donne sono state 587, quelle degli uomini 383. Per quanto riguarda le richieste di uscita anticipata dovuta al riconoscimento di forme di invalidità al 74%, le donne che hanno presentato la domanda sono state 213, gli uomini 301.

Anche in Europa le cose non vanno sempre bene
Sempre dalle analisi della Cgil abbiamo la conferma che l’Italia è uno dei paesi europei con i livelli più bassi di occupazione femminile. Rispetto a una media Ue di 66,5 occupate ogni 100 donne tra 20 e 64 anni, il nostro Paese si trova al penultimo posto con il 52,5%, appena sopra la Grecia (48%) (mentre, secondo i dati Istat del 2018 il tasso di occupazione è del 67,6% per gli uomini e del 49,5% per le donne tra i 15 e i 64 anni). L’Italia è anche il secondo paese con il più ampio divario occupazionale uomo-donna: 19,8 punti differenza rispetto a una media Ue di 11,5 In tutta l'UE le donne percepiscono una pensione inferiore rispetto agli uomini, in media del 36% in meno. Nei diversi Stati membri il divario pensionistico di genere per la fascia di età dai 65 ai 79 anni (tenendo conto di coloro che percepiscono un reddito da pensione) andava nel 2016 da un valore basso come l'1,8% dell'Estonia a un valore elevato quale il 48,7% di Cipro. L’impianto del sistema pensionistico riveste comunque una notevole importanza, nel lungo termine il divario di genere nelle pensioni potrà essere ridotto garantendo maggiori pari opportunità nell'occupazione per donne e uomini, ma sicuramente, altri elementi specifici dei regimi pensionistici, quali il riconoscimento a fini pensionistici dei periodi dedicati all'assistenza e le prestazioni ai superstiti, continueranno a svolgere un ruolo essenziale per colmare il divario. Infatti, il divario sulle pensioni in Europa spesso sconta il fatto che in alcuni paesi le donne hanno diritto al riconoscimento a fini pensionistici dei periodi dedicati all'assistenza dei figli.

Le origini della diseguaglianza
Nel corso degli ultimi anni sono state fatte varie analisi sul gap previdenziale. Secondo l’economista Michele Raitano (Università La Sapienza), uno dei maggiori esperti in materia, “per quanto riguarda le differenze di genere, i dati Inps mostrano come la penalizzazione nei salari medi fra donne e uomini rimanga costante intorno al 30%. Tale andamento è dovuto principalmente a due fattori: da una parte, un aumento dei salari ricevuto dalle donne nel corso del tempo, a parità di caratteristiche e tempi di lavoro; dall’altra, un aumento della partecipazione femminile che ha determinato una maggiore incidenza nel mercato del lavoro di donne con bassi salari (anche a causa dell’aumento del part time) o limitato numero di settimane lavorate. Quando si prendono in esame i salari settimanali dei full-timers, la penalizzazione salariale fra uomini e donne si riduce nel tempo diminuendo dal 23,4% del 1985 al 13,2% del 2016. “Ciò conferma che una quota sostanziale della differenza di genere è da attribuire alla diversa incidenza del part-time fra uomini e donne”.

A questi problemi si dovrà mettere mano e nei progetti di riforma che dovranno superare l’attuale legge Fornero alla scadenza di Quota 100 (dicembre 2021), si dovrà tenere conto di misure di riequilibrio. Nel frattempo i sindacati confederali, con la piattaforma unitaria che hanno consegnato al governo come base del nuovo confronto, non chiedono la rivisitazione di Opzione donna, ma misure di flessibilità in uscita (62 anni e 41 anni di contribuiti). Cgil, Cisl, Uil pensano comunque che vadano garantire le casistiche attuali dell’Ape sociale, soprattutto per quanto riguarda le persone disabili e le donne che svolgono lavori di cura.

Un anno di contributi per ogni figlio
Ma la novità di cui si sta già discutendo, sempre per quanto riguarda le lavoratrici, riguarda la possibilità di ottenere un anno di contribuzione pagata per ogni figlio. Oltre a questa misura si propone anche una modificazione in meglio del calcolo del coefficiente di trasformazione (il rapporto tra la pensione e la retribuzione). Le lavoratrici avrebbero la possibilità di scegliere: andare in pensione prima con la valorizzazione della contribuzione legata ai figli, oppure uscire più tardi ma con un coefficiente più alto (quindi con una pensione) più alta). Si tratta poi di analizzare tutti gli altri aspetti che contribuiscono ancora a creare squilibri e diseguaglianze. Lo vedremo in un altro approfondimento.