Non si dice particolarmente stupito dall'annuncio di messa in vendita da parte di ThyssenKrupp delle acciaierie di Terni, Alessandro Portelli, scrittore, storico e profondo conoscitore della città e della sua fabbrica, che ha raccontato più volte nei suoi libri, tra i quali Acciai speciali. Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione (Donzelli, 2008) e La città dell'acciaio. Due secoli di storia operaia (Donzelli, 2017).

Portelli, quindi si aspettava questo addio da parte della multinazionale?

È da almeno 15 anni che i tedeschi puntano a ridimensionare la fabbrica. Fin dalla vicenda del magnetico nel 2004 la strategia è stata chiara. Poi c'è stato un primo tentativo di vendita, ai finlandesi di Outokumpu, bloccato dall'antitrust, e ora questo annuncio. Per anni mi è sembrato che questa fabbrica fosse per Thyssen quasi un ingombro e poi ho l'impressione che la multinazionale non se la bassi benissimo, tanto che ha dovuto vendere la divisione elevator, gli ascensori, i suoi gioielli di famiglia. Insomma, non mi sembra proprio una decisione imprevedibile.

E, infatti, anche il sindacato e i lavoratori non sono caduti dalla sedia all'annuncio, se non per il momento in cui è arrivato e cioè in piena pandemia. Ma le istituzioni invece? Terni, l'Umbria, l'Italia secondo lei sono pronti per affrontare questo scenario?

Purtroppo penso di no. Non c'è da anni un governo dell'economia in questo paese, non c'è una politica industriale e siamo totalmente esposti a decisioni prese altrove e sulla base di interessi privati, di certo non coincidenti con quelli nazionali. Pensare che una realtà come l'acciaieria di Terni possa essere messa in discussione in quello che resta uno dei principali paesi manifatturieri d'Europa è un controsenso. Tanto più che il mercato di riferimento di Ast è proprio quello italiano, al quale contribuisce per una quota importante. Senza le produzioni di Terni dovremmo probabilmente metterci ad importare acciaio inossidabile, il che è davvero un paradosso.

Senta Portelli, lei ha studiato e descritto in maniera unica il rapporto tra la città e la fabbrica. Come è cambiato e come lo vede oggi?

Sicuramente la relazione si è indebolita nel corso del tempo. Da una totale identificazione, dimostrata ad esempio all'epoca della vertenza per il magnetico nel 2004, si è passati ad una solidarietà sempre più “sofferta”, non senza momenti di fastidio verso questa componente operaia che prima era invece il vanto della città. Una classe, quella operaia, che a sua volta è andata progressivamente disgregandosi come soggetto politico. Da una parte hanno sicuramente inciso il dilagare del sistema di appalti e sub-appalti, la frammentazione del lavoro, la sua precarizzazione, che minano la solidarietà e la compattezza. Dall'altra tutti conosciamo le vicende della sinistra ternana, il suo progressivo distacco dal mondo operaio, favorito anche da una certa intellettualità locale che ha cominciato a rivendicare un'identità altra. Tutto questo ha fatto sì che la classe operaia, che era la voce della città, si sia ritrovata quasi ammutolita. Gli esiti elettorali di questa “svolta” li abbiamo visti, persino l'antifascismo ora a Terni è pesantemente sotto attacco.

E ora che si profila una nuova vertenza, difficile e quasi decisiva per il futuro della fabbrica e della città?

Non so dirle cosa succederà, come reagirà Terni a questa ennesima vertenza per le acciaierie. Di certo tutti sappiamo che è difficile tenere a lungo alta la tensione. Tuttavia, ancora oggi la città non sarebbe se stessa senza la sua fabbrica. Io ricordo che già negli anni '70 si facevano a Terni convegni, anche dentro il Pci, su come 'liberarsi' dalla cappa delle acciaierie. Il che avrebbe trasformato la città dell'acciaio in uno dei tanti paesi di provincia di secondo o terzo rango, con l'unico vantaggio di far recuperare alle piccole élite locali qualche spazio di potere in più, che la grande fabbrica e la classe operaia organizzata non consentivano. Ecco, nonostante tutto, penso che ancora oggi sia difficile immaginare un'altra Terni.