È inaccettabile e rappresenta un vero e proprio problema democratico che la destra non solo approvi negativi decreti sul lavoro senza confronto con le parti sociali e utilizzando voti di fiducia, ma che addirittura sul salario minimo tenti di impedire la discussione parlamentare. Anche per questo l’Assemblea generale della Cgil ha dato mandato alla segreteria nazionale di valutare la predisposizione di una proposta di legge di iniziativa popolare su rappresentanza e salario minimo, ricorrendo anche allo strumento del referendum abrogativo verso leggi che stanno incentivando la precarietà del lavoro.

Su questi temi l’’Istat, con la sua riconosciuta autorevolezza, propone all’audizione parlamentare dell’11 luglio 2023 un’importante definizione e sistematizzazione di aspetti che spesso, in modo diversificato o di parte, vengono utilizzati nel dibattito pubblico relativamente alle condizioni qualitative dell’occupazione e alle tematiche della giusta retribuzione e del salario minimo. Pubblicamente si afferma che tutto va bene, eppure i dati Istat testimoniano altro: forme di lavoro “non standard”, lavoro povero, lavoro a bassa retribuzione. Questi aspetti vengono analizzati singolarmente, ma sono anche indicati gli effetti che provocano congiuntamente.

Forme di lavoro “non standard”

Si identificano le forme di lavoro non standard utilizzando almeno due dimensioni fondamentali che la Cgil e la Fondazione Di Vittorio da tempo esaminano: la continuità lavorativa nel tempo (precarietà), da cui, oltre che la condizione immediata, discendono anche i contributi assistenziali e previdenziali; la bassa intensità lavorativa (ore lavorate). Solo questi due fattori fanno sì che il lavoro standard (dipendenti a tempo indeterminato e autonomi con dipendenti, entrambi a tempo pieno) riguardi ormai poco meno del 60% del totale degli occupati nel 2022 contro un 65% nel 2000.

Il dato, davvero rilevante, è legato sia al calo complessivo degli occupati indipendenti (la cui percentuale sugli occupati totali rimane però sempre più alta della media europea) sia all’aumento dei tempi determinati, ormai stabilmente attorno al numero di tre milioni (erano 1,5 milioni all’inizio degli anni Novanta), e alla breve durata della loro occupazione (per circa il 47% pari o inferiore ai sei mesi), fenomeno che si accentua nelle piccole imprese e in alcuni comparti.

Se il lavoro a termine, nelle sue diverse forme, non può che essere considerato lavoro precario, la parziale (ma non per noi) novità è l’inserimento in modo netto nel lavoro non standard dell’occupazione a part time involontario. Il fenomeno del part time è profondamente cambiato sia numericamente (12% degli occupati a inizio anni Duemila; 18,2% nel 2022) sia per le sue modalità.

Il part time involontario è circa il 56% sul totale del part time nel 2022, con un’incidenza sul totale occupati che dal 2000 a oggi è raddoppiata. Questa quota di non libera scelta del lavoratore risponde solo alla flessibilità organizzativa dell’impresa, rientrando quindi a pieno nelle caratteristiche di lavoro non standard. Individuate le fattispecie di mancata continuità e intensità lavorativa, al suo interno si possono considerare tre gruppi di totale occupazione non standard, fra cui una quota di lavoratori doppiamente vulnerabili in quanto lo sono sia rispetto alla durata sia rispetto all’intensità di lavoro.

Questo aggregato si suddivide tra 19,1% quasi standard; 17,6% di lavoratori vulnerabili (a termine e part time involontario) e il 3,5% di lavoratori doppiamente vulnerabili. Escludendo i quasi standard, l’aggregato dei non standard è quindi del 21%, quasi cinque milioni di occupati, e tra questi 800 mila doppiamente vulnerabili.

L’Istat identifica anche da chi è prevalentemente formata questa tipologia non standard di occupati:
- giovani fino a 34 anni (quasi il 40% del totale di questa fascia di età);
- donne per quasi il 28% delle occupate;
- stranieri (33,5%); con basso livello di istruzione (circa 25%); residenti nel Mezzogiorno (27,3%).

Le tante diseguaglianze che abbiamo da tempo denunciato incidono dunque in maniera molto rilevante (e viceversa) anche sulla qualità e sulle condizioni di lavoro. E quando lo svantaggio si sovrappone, aumentano considerevolmente in particolare per le donne.

Ovviamente, altro tema che da tempo indichiamo come anomalia del sistema produttivo, è la più elevata concentrazione di lavoratori non standard tra le professioni non qualificate (con una quota significativamente più alta rispetto alla media europea) e in alcuni specifici settori. Fenomeno che, oltre a deprimere le condizioni di lavoro, è anche lo specchio di un modello produttivo a basso valore aggiunto e inadeguato, che per tanta parte tende a competere prevalentemente sul costo (del lavoro).

Lavoro povero

Nel 2020 il 20,1% delle persone vivono in famiglie a rischio povertà (quasi 12 milioni di individui), la quota si abbassa all’11,4% se si considera chi ha un’occupazione dipendente. Questi dati si prestano a una doppia lettura: il lavoro svolge ancora un’azione positiva verso le condizioni delle persone, ma sempre più il proliferare di occupazione non standard attenua questa funzione, facendo ricadere circa 2,4 milioni di lavoratori dipendenti nel rischio di povertà. Anche in questo caso la quota è percentualmente più alta fra i giovani, tra chi è meno istruito, tra gli stranieri e con forti differenze di genere.

Per chi continua a proporre (sotto altro nome forse per pudore) le gabbie salariali, è bene far sapere che un lavoratore dipendente residente nel Mezzogiorno corre circa tre volte e mezzo in più il rischio di povertà rispetto al Nord. La prova di quanto influiscono le condizioni di lavoro non standard sulla povertà è evidenziata dal fatto che il rischio diminuisce all’aumentare dell’intensità lavorativa; problema che riguarda i contratti a termine (durata) e i part time (quantità).

Basse retribuzioni

Per il 2021 la soglia definita “bassa retribuzione” è di 12.093 euro annui lordi (60% mediana) e interessa circa 4,6 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato extra-agricolo. Analizzeremo il fenomeno delle “basse retribuzioni” attraverso i dati Istat relativamente al valore orario della retribuzione, ma risulta chiaro che i fattori che influiscono sono anche legati al tipo di occupazione e che intervenire su qualsiasi di questi fattori comporta un effetto positivo in sé. Gli occupati standard hanno una retribuzione lorda annua (valore mediana) attorno ai 25 mila euro; i non standard (settore privato extra agricolo) molto più bassa (12 mila euro part time a tempo indeterminato; 7 mila euro full time a tempo determinato).

Soglia minima oraria per le retribuzioni

Per questa analisi l’Istat prende a riferimento le retribuzioni annue lorde relative al 2019 (escludendo il periodo pandemico) e presenterà a fine anno quelle per il 2021. I lavoratori interessati (settore privato extra agricolo) erano circa 15,3 milioni di dipendenti, per un totale di 19,7 milioni di rapporti. Fra questi ultimi, i rapporti con retribuzione oraria inferiore ai 9 euro lordi sono quasi un quinto del totale (circa 3,6 milioni di rapporti) e coinvolgono circa tre milioni di lavoratori. Il problema si concentra fra le qualifiche operaie, settore dei servizi, apprendistato e altri.

L’innalzamento ad almeno 9 euro orari per chi è sotto questa quota comporterebbe un incremento della retribuzione annuale per quasi tre milioni di lavoratori, con un incremento medio annuo lordo di circa 804 euro pro-rapporto e un aumento complessivo del monte salari stimabile in circa 2,8 miliardi di euro. Qualcuno obietterà che si può alzare il salario annuo anche attraverso altri meccanismi. Ma una domanda è d’obbligo: perché viene fatto il contrario? Perché con il decreto del 1° maggio si aumentano tempi determinati o voucher? Per intervenire sul differenziale che si è prodotto bisogna agire su tutti i fattori.

La differenza fra i salari italiani e quelli delle principali economie europee, a noi comparabili, è tale che solo così si può ridurre questo divario. È indispensabile quindi concretizzare un minimo orario al di sotto del quale il lavoro non può essere retribuito. Per chi è nelle condizioni di svantaggio prima richiamate si realizzerebbe così un incremento della retribuzione, attenuando il fenomeno di chi è povero anche se lavora; evitando peraltro che di volta in volta le persone vengano assunte con la scelta di condizioni contrattuali svantaggiate per stesse attività (i lavoratori poveri hanno la necessità, per cercare di raggiungere un reddito decente, di più rapporti di lavoro nell’anno e sono così ricattabili).

Un minimo retributivo contrattuale valido per tutti i settori avrebbe fra l’altro anche un positivo effetto di riduzione del differenziale retributivo di genere. Infine, l’Istat calcola a maggio 2023 il valore medio della retribuzione oraria lorda in Italia a 14,5 euro e il valore mediano a 12,8 euro. Se a questi valori orari, desunti dall’indagine sulle retribuzioni contrattuali dell’Istat, si applicassero i due parametri indicati nella Direttiva europea per identificare il valore del salario minimo, cioè 50% medio e 60% mediano, si avrebbero rispettivamente 7,25 euro/ora e 7,68 euro/ora.

La metodologia di calcolo, però, non è unica: l’Inps, prendendo in considerazione le retribuzioni effettivamente elargite nel 2019, ha calcolato 10,59 euro/ora (50% medio) e 7,65 euro/ora (60% mediano).
Qualcuno obietterà che quindi il valore di 9 euro/ora è troppo alto. Affermazione facilmente contestabile.

In generale è inaccettabile che le distorsioni del mercato del lavoro e salariali vengano fatte più volte ricadere sui lavoratori. In Francia e Germania i valori orari di legge sono decisamente più alti, ma anche nel merito si potrebbe argomentare che: il valore del salario medio e mediano dipende dalla platea presa a riferimento (ad esempio, con o senza alcune qualifiche e/o settori); le voci che lo determinano non sempre comprendono tutti i benefici contrattuali a partire dal welfare integrativo; che la metodologia di calcolo può essere differente; che i prossimi rinnovi contrattuali terranno conto dell’alta inflazione e quindi saranno mediamente più elevati; che molti di quelli stipulati tra fine 2022 e i primi mesi del 2023 hanno tranche di aumento che entreranno in vigore progressivamente.

Soprattutto che la platea di occupati non standard ha non solo meno ore lavorate, ma anche molte meno ore retribuite (ferie, permessi ecc.) per la natura temporanea dei loro contratti. Tutte argomentazioni reali, anche se non necessarie, per motivare l’esigenza di un minimo orario a 9 euro. In Italia grazie alla contrattazione collettiva (la più diffusa in Europa) la grande maggioranza di chi lavora è già oltre i 9 euro/ora (più di 12 milioni nel settore privato extra agricolo) e ogni anno la quota aumenta di alcune centinaia di migliaia di persone.

Ma le leggi sul mercato del lavoro e il loro utilizzo da parte delle imprese, la scelta di competizione di costo, i mancati rinnovi di troppi contratti senza alcuna penalizzazione per le imprese (nemmeno in relazione all’accesso ai benefici pubblici), i contratti pirata per la mancanza di una legge sulla rappresentanza, rendono il processo più lento del necessario e contribuiscono ad alimentare il bacino del lavoro povero.

Un rapido intervento di legge sul salario minimo, che presumibilmente (per i tempi di attuazione) darebbe effetti concreti fra fine 2024 e inizio 2025, non può non prevedere una cifra che non tenga conto di tutto questo, e 9 euro/ora è un parametro congruo che poi annualmente la Commissione (che in molti altri Paesi è prevista) verificherà. Una norma che – se ben fatta – sia di sostegno alla contrattazione valorizzando contestualmente anche il ruolo del Tec che è materia solo e tipicamente contrattuale.

Un trattamento complessivo del ccnl più rappresentativo del settore, cui fare riferimento per i diversi contratti dello stesso settore, estendendo a tutti questo trattamento economico complessivo, alzerebbe il parametro retributivo sulla base di scelte contrattuali delle parti e aiuterebbe fra l’altro a diminuire il numero dei contratti (in particolare quelli pirata). Contestualmente è evidente la necessità di una legge sulla rappresentanza, che assieme a interventi sul mercato del lavoro e sul minimo orario rappresenterebbe un grande passo in avanti per le persone, una valorizzazione del ruolo della contrattazione e l’applicazione di due articoli fondamentali (36 e 39) della Costituzione.