Venerdì lo sciopero della Cgil ha mostrato che il mondo del lavoro è capace di farsi sentire, squarciando il silenzio con il passo di migliaia di persone. Ieri i sindacati di base hanno rovesciato il galateo dell’indifferenza, portando in strada un’esplosione di energia e resistenza. Un fiume di giovani e lavoratori ha reso il Paese più vigile, più cosciente, meno disposto a lasciarsi narcotizzare dall’inerzia dei governi.

In quelle piazze il messaggio è stato netto: senza pace non c’è giustizia e il sangue di Gaza non macchia soltanto le mani dei carnefici, ma anche gli occhi bassi di chi finge di non vedere. Quel popolo variegato si è fatto scudo umano contro il genocidio. Un atto di accusa collettiva. Un dito puntato contro le complicità e le omissioni che permettono alla mattanza di continuare.

Quello slancio va coltivato e reso spinta duratura. La commozione evapora, la denuncia isolata si spegne, servono organizzazione e pressione politica. Bisogna intrecciare solidarietà con il popolo palestinese, rifiuto della guerra come strumento di dominio e una richiesta chiara al governo italiano: basta con gli equilibrismi, basta con i distinguo cesellati in filigrana. Oggi è la piazza a scandire il tempo e a dettare l’agenda. Il Palazzo, se vuole contare ancora qualcosa, deve uscire dal labirinto delle parole e compiere scelte reali.

Il cammino non è un’incognita e ha già due tappe segnate: il 12 ottobre la marcia della pace Perugia-Assisi; il 25 ottobre la manifestazione a Roma con la Via Maestra e le delegazioni dei sindacati mondiali. Occasioni per rinsaldare legami internazionali, far vibrare le reti, trasformare il rumore in un sisma capace di incrinare anche i muri più sordi del potere. Passaggi obbligati per rendere la protesta ancora più grande, più autorevole, più inaggirabile.

Ma non basta, l’onda deve crescere ancora fino a diventare marea, risacca dopo risacca, finché l’indifferenza non avrà più appigli a cui aggrapparsi. Fermare un genocidio non è un atto di generosità né la carezza dei buoni sentimenti: è il minimo sindacale della dignità che rivendichiamo come cittadini, come lavoratori e come esseri umani.