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La premier Meloni ha subito sfoggiato il tailleur dell’ottimismo e twittato il trionfo: i dati Istat sarebbero la prova provata delle sue politiche. In realtà dietro lo slogan “più lavoro, più crescita” si nasconde il solito trucco da prestigiatore: basta che decine di migliaia di persone smettano di cercare occupazione e oplà, la disoccupazione cala. È la recessione della speranza, non il progresso dell’economia.
Il Paese guadagna 13mila occupati in un mese, poco più della folla di uno stadio di provincia, mentre 30mila cittadini abbandonano la forza lavoro. Non è un miracolo, è un gioco delle tre carte: da un lato l’annuncio, dall’altro la resa silenziosa di donne, giovani adulti e cinquantenni, categorie che il mercato considera materiale di scarto.
Così i grafici scendono di qualche decimale e l’Istat rassicura, ma il Paese reale tira i remi in barca. Lavorare non conviene o non si può, eppure a Palazzo si brinda. I dettagli, come sempre, si occultano a pie’ di pagina.
La gioventù resta tre volte più martoriata della media: disoccupazione under al 18,7%, un marchio nazionale che neppure la propaganda riesce a ridipingere. Ma basta una pennellata di entusiasmo e il resto svanisce sotto il tappeto: è la politica della cosmesi che aumenta gli hashtag invece degli stipendi.
E mentre il governo inneggia ai “numeri incoraggianti”, rimangono le vite scoraggiate di chi non trova posto, di chi lo ha perso, o di chi non crede più che valga la pena cercarlo. Una vittoria di Pirro trasformata in spot, una resa collettiva venduta come rinascimento.