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Quasi 4 mila in cassa integrazione. Per la precisione 3.926, di cui 3.538 a Taranto, 178 a Genova 178, 165 a Novi e 45 a Racconigi. Sono questi i numeri che stamani i commissari straordinari hanno comunicato ai sindacati nel corso dell’incontro che si è tenuto da remoto a seguito dell'incendio che mercoledì 7 maggio ha colpito l’altoforno 1 dell’impianto di Taranto.
Un incontro preceduto dalle parole drammatiche del ministro delle Imprese. “A Taranto – ha detto Adolfo Urso – l’incendio ha compromesso l’attività produttiva dell’altoforno 1, il che vuol dire che non ci sarà più la possibilità di riprendere un livello produttivo significativo come quello previsto dal piano industriale che avrebbe portato alla piena decarbonizzazione degli impianti”.
La cassa integrazione
La cassa integrazione, dunque, balza a quasi 4 mila unità. Acciaierie d’Italia, con l’accordo siglato lo scorso 4 marzo al ministero del Lavoro, aveva definito con sindacati e governo un tetto massimo di 3.062 cassaintegrati a rotazione, di cui 2.680 a Taranto (su 8 mila addetti). Al momento a Taranto la cassa si stava mantenendo sotto le 2 mila unità, avendo due altiforni in marcia (l’1 e il 4) e una previsione produttiva per il 2025 di quattro milioni di tonnellate (contro i due milioni del 2024).
Entro massimo due giorni l’azienda procederà ad attivare l’istanza al ministero del Lavoro per prefigurare un intervento sulla cassa integrazione che, ha detto il responsabile delle risorse umane di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria Claudio Picucci, sia “coerente con la fase attuale”. Se non ci saranno cambiamenti in senso positivo rispetto ai tempi di riavvio dell’altoforno, si dovrà valutare - avrebbe detto ancora Picucci - una cassa integrazione straordinaria più ampia.
Scarpa, Fiom: “I lavoratori non paghino incapacità altrui”
“Non accetteremo percorsi di cassa integrazione senza alcuna chiarezza sulle prospettive future dell’ex Ilva”. Così il coordinatore nazionale siderurgia Fiom Cgil Loris Scarpa, commentando l’incontro di oggi: “Non può essere che i lavoratori ancora una volta paghino le conseguenze dell’incapacità di far partire la decarbonizzazione degli impianti. In questo modo si mettono in discussione tutte le tutele salariali, occupazionali e di messa in sicurezza dei lavoratori e degli impianti, che abbiamo conquistato nei precedenti accordi”.
Scarpa evidenzia che “le risorse non sono state garantite in modo sufficiente ad assicurare il piano di ripartenza e ora non può essere che la soluzione sia collocare i lavoratori in cassa integrazione chissà per quanto tempo. Per quel che ci riguarda va contrastato questo percorso unilaterale. Nelle prossime ore ne discuteremo con i lavoratori e le altre organizzazioni sindacali”.
De Palma, Fiom: “È ora di garantire lavoro, salute e sicurezza”
“L’ex Ilva è a un passo dal disastro, secondo quando affermato dai commissari e adombrato nei giorni precedenti dal ministro Urso che ha evocato Bagnoli”. Così il segretario generale Fiom Cgil Michele De Palma, in un suo intervento pubblicato oggi sul Fatto Quotidiano, evidenziando che “la trattativa con Baku Steel sembra non essere mai partita davvero visto il prolungarsi dei tempi, l’autorizzazione integrata ambientale ancora non c’è, le risorse scarseggiano per le normali attività”.
Il leader sindacale evidenzia che gli effetti della fermata dell’altoforno 1 ricadranno ancora sui lavoratori. “Un eventuale fallimento colpirebbe chi ha già pagato un prezzo altissimo: lavoratori e cittadini, che invece debbono poter contare sulla solidità dello Stato”, afferma: “Un Paese senza acciaio primario rinuncia a essere un Paese industriale. Quindi è ora che il piano di ripartenza diventi di transizione verso la decarbonizzazione e garantisca lavoro, salute e sicurezza”.
De Palma sottolinea anche che “il fallimento dell’ex Ilva avrebbe un effetto a catena sugli impianti di Genova, Novi Ligure, Racconigi e sull’industria del nostro Paese. Ed è altrettanto chiaro che la chiusura significherebbe non solo non risolvere i problemi ambientali, ma sarebbe una bomba sociale ed economica”.
L’incidente all’altoforno 1, continua il segretario generale Fiom, dice in modo chiaro che “bisogna procedere sulla messa in sicurezza per consentire la transizione verso la decarbonizzazione. Molti Paesi europei, da ultimi Gran Bretagna e Germania, hanno preso la decisione di nazionalizzare asset strategici come le telecomunicazioni, l’energia e l’acciaio”.
Per De Palma “è ora di assumersi la responsabilità e non che siano gli eventi a decidere. Bisogna non ripetere gli orrori del passato. Sarebbe diabolico mettere risorse pubbliche in mano a qualsiasi gestione privata che non raggiunga l’obiettivo di un accordo per la salute e l’occupazione dei lavoratori. Un accordo ‘d’acciaio verde’ tra lavoratori, cittadini e lo Stato in assenza o con la partecipazione del privato. I lavoratori sono gli unici che potranno realizzare la decarbonizzazione”.
La polemica tra Procura di Taranto e azienda
L’incremento significativo della cassa è da mettere in relazione al sequestro senza facoltà d’uso dell’altoforno 1, disposto dalla Procura di Taranto a causa dell’incendio di mercoledì scorso che ha danneggiato pesantemente la struttura, interessando in particolare una delle tubiere che servono a innescare il processo di produzione della ghisa.
Acciaierie d’Italia, invece, ritiene che la Procura abbia autorizzato tardi - ovvero solo nel pomeriggio di sabato 10 - gli interventi urgenti che l’azienda aveva chiesto all’autorità giudiziaria per mettere in sicurezza l’impianto e salvaguardarlo tecnicamente, pur restando il divieto di usarlo. Questi interventi, sostiene la società, dovevano essere fatti entro 48 ore dall’incendio. Invece, avuta l’autorizzazione sabato e organizzate le attività domenica 11, Acciaierie le ha potute cominciare solo ieri (lunedì 12).
Sulla vicenda si è schierato anche il ministro Urso. “Si è intervenuti troppo tardi rispetto a quanto era stato richiesto sulla base di chiare perizie tecniche”, ha detto il titolare del dicastero delle Imprese: “Bisognava farlo entro 48 ore e purtroppo non hanno avuto l’autorizzazione a farlo. È un danno notevole che avrà inevitabilmente immediate ripercussioni sull’occupazione”.
Il rinnovo dell’Autorizzazione integrata ambientale
Tra i problemi che Acciaierie d’Italia si trova ad affrontare c’e’ anche il rinnovo dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), che serve a far funzionare gli attuali impianti dello stabilimento di Taranto. Lo ha detto il direttore generale di Acciaierie Maurizio Saitta, nell’incontro di oggi sull’estensione della cassa integrazione.
“Al momento - ha detto Saitta - è convocata per mercoledì 21 maggio la conferenza dei servizi a Roma. Durante questa settimana produrremo approfondimenti, chiarimenti e osservazioni per aiutare il gruppo istruttore e spiegare la nostra posizione. Porteremo considerazioni e osservazioni su quanto già fatto e sulle prescrizioni inserite nella nuova Aia”.
Sono 477 infatti le prescrizioni ambientali inserite nel nuovo testo dell’Aia valevole per 12 anni e per una produzione di sei milioni di tonnellate di acciaio l’anno con gli attuali impianti. Acciaierie osserva che le 477 prescrizioni in realtà arrivano a quasi 700 perché molte si articolano poi in ulteriori prescrizioni collegate. Saitta sostiene che quanto viene chiesto con la nuova Aia in molti casi è di difficile realizzabilità e non trova riscontro nelle regole europee in materia.
Il direttore generale di Acciaierie, infine, osserva che se la nuova Aia dovesse rimanere così com’è costerebbe un miliardo di euro, e sarebbe solo un’autorizzazione formale a produrre perché, per l’azienda, nei fatti la produzione sarebbe ostacolata.