Lavoratori, studenti, attivisti. C’erano tanti giovani il 7 ottobre in piazza. Confusi tra il suono dei tamburi, immersi nel rosso sventolare delle bandiere, consapevoli del fatto che la loro stessa presenza rappresentasse una sfida al grande pregiudizio generazionale che li vuole disinteressati e svogliati. Arrivati da tutta Italia, hanno portato storie diverse, di attivismo, di associazionismo o di un impegno scoperto da poco.

Arianna, 19 anni, da Bologna è venuta a Roma con la madre. Il corteo ancora rallenta la sua partenza e lei sorride mentre spiega che “mia mamma fa parte dello Spi, io oggi l’ho accompagnata perché probabilmente una pensione non ce l’avrò mai”. Arianna dimostra subito quanto poco spazio ci sia per l’idealismo nelle nuove generazioni, che in piazza portano più che altro la loro incerta quotidianità.

“Oggi sono qui perché ci sono una serie di cose che non vanno bene in Italia”, aggiunge la diciannovenne: “Sono qui per lottare per il lavoro, che è molto precario e non consente di formare una famiglia, di poter accedere a un mutuo per la casa. Posso dire che per la mia generazione, il lavoro è il problema più urgente”.

Lorenzo ha 30 anni, da poco tempo si è stabilizzato dal punto di vista lavorativo e si è iscritto al sindacato. “I miei coetanei si trovano nel precariato più totale, senza prospettive”, spiega: “Questo ovviamente allunga molto i tempi se uno vuole comprare casa o anche solo uscire da quella dei genitori, visto che si dice sempre che siamo dei mammoni”.

Il sindacato, gli chiediamo, fa abbastanza per rappresentare questa realtà? “Può sempre fare di più”, ci risponde: “La scelta di prendere la tessera della Cgil è stata dettata proprio dal desiderio di dare il mio contributo, con la partecipazione a una manifestazione come questa, a una riunione sindacale, oppure esprimendo le mie opinioni sul luogo di lavoro, cercando di migliorare ognuno il proprio ambito”.

L’importanza di impegnarsi in prima persona è qualcosa che anche Giovanni ha scoperto di recente. Indossa la maglietta rosso scuro del collettivo della Gkn, ci dice che “in quanto giovane” ha snobbato per molto tempo il tema del lavoro. Finché non è scoppiata la crisi dell’ex azienda metalmeccanica di Campi Bisenzio (Firenze).

“Dalla mobilitazione degli operai ha imparato quanto il lavoro sia la base della mia vita, del futuro, del passato”, spiega Giovanni: “Ho imparato che il lavoro ha costituito anche la storia d’Italia attraverso la Costituzione”. A vent’anni ritiene fondamentale la sua presenza alla manifestazione “per ritrovarsi, vedere tante persone, riunirsi in una lotta collettiva per il Paese, soprattutto in un momento storico in cui, non solo tra i giovani, c’è meno coscienza sociale”.

Ma i giovani, insomma, sono disposti a mobilitarsi, a portare avanti le proprie istanze? Oppure no? “Dipende dai temi”, “è questione di opportunità, prima o poi tutti si svegliano”, “siamo troppo impegnati a cercarci un lavoro che non sia precario”: sono queste le risposte che tornano più spesso.

L’interpretazione più illuminante la dà Laura, giovane universitaria romana: “Io credo che il fatto che non siamo più disposti a mobilitarci possa essere vero nella misura in cui i giovani non vengono ascoltati mai. È ovvio che se dobbiamo costantemente appoggiarci a qualcuno più grande di noi per farci dar retta, per far sentire la nostra voce, allora ci crediamo molto meno e non abbiamo più grande voglia di scendere in piazza”.

A fornire la sintesi degli stati d’animo di tutti è un gruppo di ragazze e ragazzi venuti da Paternò, in provincia di Catania: “Essere qui è un dovere morale, siamo giovani, non possiamo esimerci dal partecipare”. Ecco: a tenere assieme tutte queste storie che sfilano in corteo è la necessità di esserci, di rappresentare un segno per i propri coetanei, di riacquistare una “coesione sociale” che parta dalla propria generazione.