Chi ha una figlia adolescente ci è passato almeno una volta: fare shopping compulsivo sul sito di Shein, campione della super fast fashion. Il colosso cinese ha conquistato negli ultimi anni milioni di utenti in tutto il mondo con una strategia aggressiva che si è rivelata vincente: capi a prezzi stracciati, aggiornamento giornaliero dei cataloghi, marketing mirato sui giovani. Una convenienza che però ha un costo elevatissimo per l’ambiente, per i lavoratori e per gli stessi consumatori.

Le sanzioni e la legge

Non è un caso che sia finita nel mirino dell’Antitrust italiana, che l’ha sanzionata con un milione di euro per greenwashing, cioè per aver diffuso claim ambientali “vaghi, generici e/o eccessivamente enfatici, in altri casi omissivi e ingannevoli”. È capitata anche nelle maglie dell’omologa autorità francese che le ha comminato una multa record di 40 milioni di euro per “pratiche commerciali ingannevoli nei confronti dei consumatori sulla realtà degli sconti”. Sempre in Francia è stata oggetto di una legge approvata dal Senato il 10 giugno scorso: una proposta che nasceva con l’intenzione di ridurre l'impatto ambientale dell'industria tessile, ma che alla fine è diventata uno strumento per fermare i marchi cinesi Shein e Temu.

Un’arma spuntata

“Il testo originario presentato dall’Assemblea nazionale – spiega Deborah Lucchetti, presidente di Fair e portavoce della campagna Abiti Puliti – era davvero pionieristico ed era in grado di contribuire a una vera e propria transizione del settore. Il progetto è stato poi progressivamente svuotato della sua sostanza. La versione approvata dal Senato presenta comunque aspetti interessanti: introduce un sistema a punti di valutazione dell’impatto ambientale – chi inquina di più pagherà di più – attraverso una tassa progressiva che arriverà a 10 euro a capo nel 2030. È previsto inoltre il divieto di pubblicità per i marchi sotto accusa e sanzioni per chi li promuove, ovvero gli influencer”.

Il problema, però, è che la norma non considera gli impatti sociali delle produzioni, un’omissione grave visti i livelli di sfruttamento record riscontrati nelle filiere di Shein. Inoltre, colpisce solo le grandi piattaforme cinesi, come se il problema fosse l’origine dell’impresa e non il sistema in cui tutte operano.

Logiche dominanti

“Il testo non mette in discussione le logiche economiche dominanti – prosegue Lucchetti – che rendono la produzione tessile uno dei settori più inquinanti al mondo, responsabile di circa il 10 per cento delle emissioni globali di gas serra e di numerose violazioni dei diritti dei lavoratori. La proposta di legge del marzo 2024 alimentava la speranza di un cambiamento strutturale ma poi, a fronte delle pressioni esercitate dall'industria tessile francese, il testo approvato dal Senato si è concentrato esclusivamente sulla moda ultra veloce con una definizione che esclude di fatto la maggior parte dei marchi tradizionali di fast fashion, le cui pratiche sono tuttavia paragonabili a quelle di Shein”.

E tutti gli altri?

In pratica il legislatore francese ha ristretto il campo alla sola moda ultra veloce, sottintendendo così che il resto del settore sia virtuoso. “Si tratta di un errore di diagnosi – dice Lucchetti –. Il problema non è solo l'accelerazione del ritmo di produzione, ma l'intero sistema di produzione tessile globalizzato, strutturato intorno alla ricerca del costo più basso a scapito dei diritti umani e dell'ambiente. Come emerge dalle numerose ricerche della Clean Clothes Campaign e di Abiti Puliti sul made in Europe, le pratiche tipiche della fast fashion aggravate dalla moda ultra veloce riguardano anche il settore del lusso, molto importante in Francia dove risiedono i quartieri generali dei colossi mondiali Lvmh e Kering”.

Interessi nazionali

Se si va a indagare come è stata partorita la legge francese anti-Shein si scopre che il dibattito sulla proposta è passato da una riflessione sulle responsabilità ambientali e sociali dell'industria tessile a una lettura sempre più geopolitica, incentrata su quella che è stata definita la minaccia cinese. La nuova normativa quindi si è trasformata in una resa dei conti guidata da interessi economici nazionali e logiche geopolitiche.

Identikit di un colosso

Creata nel 2008 in Cina, Shein è presente in 150 Paesi e ha un fatturato stimato di 38 miliardi di dollari nel 2022. Ogni anno immette sul mercato centinaia di milioni di ordini, un volume senza precedenti nella storia dell'industria tessile, esporta ogni giorno 5 mila tonnellate di capi di abbigliamento per via aerea, pari a 22 milioni di magliette.

Secondo il rapporto sulla sostenibilità 2024 della stessa azienda, ha emesso 26,2 milioni di tonnellate di CO², con un aumento del 23,1 per cento rispetto al 2023, nonostante i suoi impegni a ridurre la propria impronta di carbonio. In un rapporto pubblicato nel maggio 2025, l'Ong canadese Stand.earth sottolinea che se il marchio fosse un Paese, “sarebbe il centesimo maggior emettitore di CO² al mondo, con un inquinamento paragonabile a quello del Libano”.

In due anni le sue emissioni dirette e indirette legate all'intera catena del valore, sono aumentate di oltre il 170 per cento.

Le campagne anti-Shein

Ci sono diverse campagne nate per opporsi a Shein e al modello di moda che rappresenta: dalla britannica Say no to Shein che ha lanciato una petizione per impedire al gruppo di quotarsi alla borsa di Londra e aprire un’indagine sulle pratiche abusive del gruppo, alla francese Stop Fast Fashion, che oggi chiede ai parlamentari di modificare la legge appena approvata.

“Come campagna Abili Puliti nutriamo perplessità verso l’evoluzione di questa legge e concordiamo con la posizione delle Ong che chiedono più coraggio e radicalità – conclude Lucchetti –, perché normative che pongano un argine al modello fast fashion sono necessarie ma devono riformare il modello di business e non etnicizzare il problema e colpire i giganti cinesi percepiti come minaccia. Un po' come avviene da noi a Prato, dove gli imprenditori cinesi sono stigmatizzati e considerati la causa di un problema che invece sta a monte e riguarda il modello di produzione e governance delle catene globali del valore”.