C’è una favola che questo governo ama ripetere e ieri, alla vigilia del Primo maggio, l’ha recitata ancora una volta come un disco rotto. È la favola di un’Italia in piena occupazione, di un mercato del lavoro prospero, di giovani che finalmente ritrovano opportunità e dignità. Una storia che suona bene nei comunicati stampa, nei videomessaggi e nei post social dei ministri in posa, ma che si infrange contro il muro della realtà: salari da fame, contratti a termine più brevi di una stagione, insicurezza che avvelena il futuro di intere generazioni.

Perché mentre il governo si vanta che “il lavoro c’è e non è mai stato così tanto”, si guarda bene dal dire che lavoro è: povero, precario, sfruttato, sacrificabile. Si guarda bene dal raccontare che, dietro i numeri della propaganda, si nascondono milioni di lavoratori e lavoratrici incatenati a finte partite Iva, a contratti lampo da 24 ore, ad appalti senza tutele, dove si continua a morire come in una guerra dimenticata.

E a ricordarci che non è questa la normalità da accettare, è stato proprio il presidente della Repubblica. Sergio Mattarella ha parlato chiaro: in Italia i salari sono troppo bassi e la sicurezza sul lavoro è un'emergenza nazionale. Un richiamo istituzionale forte, che certifica il divario drammatico tra il racconto edulcorato della politica e la verità del lavoro che uccide, impoverisce e umilia. Se anche il Quirinale prende posizione, e non è la prima volta, significa che non è più tempo di retorica ma di responsabilità.

Ma ecco che, mentre il Paese ricorda i morti sul lavoro e i vivi senza diritti, arriva la premier Meloni a fare l’ennesimo annuncio: altri 650 milioni per la sicurezza, che sommati ad altri fondi porterebbero a oltre un miliardo di euro. Un investimento importante, a sentirla parlare. Ma le risorse, da sole, non bastano quando le condizioni materiali restano le stesse, quando il governo continua a sminuire le cause strutturali della precarietà e dell’insicurezza, quando ignora – o peggio, ostacola – chi quelle condizioni le vuole cambiare davvero, a partire dai referendum.

Meloni parla di “cordoglio” e dice che “non si può morire così”, ma poi dimentica che si continua a morire così anche mentre lei governa. Che le “patenti a crediti” non fermano le cadute dai ponteggi, che i “nuovi ispettori” sono ancora troppo pochi e troppo soli, e che gli stessi strumenti che oggi rivendica sono spesso poco più che titoli da conferenza stampa. Promette una “cultura della prevenzione” ma intanto nega la realtà: quella di un sistema che premia chi risparmia su sicurezza, salari e diritti.

È per questo che il voto sui cinque referendum promossi dalla Cgil e dalla Rete per la cittadinanza non è semplicemente un’opzione: è un dovere civile. Un impegno per chi crede che il lavoro debba essere libero, sicuro e dignitoso. I quesiti chiedono di spezzare quelle catene: limitare i contratti a termine, ripristinare la responsabilità solidale negli appalti, restituire forza reale ai contratti collettivi, estendere i diritti di cittadinanza. Sono quesiti semplici, concreti, che smascherano la distanza siderale tra la narrazione governativa e la realtà di chi il lavoro lo vive, o lo subisce, ogni giorno.

Oggi non basta celebrare: occorre scegliere. Scegliere se continuare a credere alla favola di un'occupazione che esiste solo nei grafici ministeriali o se guardare in faccia il Paese reale, dove il lavoro è diventato una trappola di precarietà e sfruttamento. Scegliere se restare spettatori passivi di un racconto addomesticato o se riscrivere, pezzo dopo pezzo, la verità delle nostre esistenze.

Il Primo maggio non può ridursi a una cornice vuota, a una festa anestetizzata. È il giorno in cui il lavoro deve tornare al centro della scena, non come slogan, ma come battaglia. E le battaglie, si sa, non si vincono con gli applausi: si conquistano con atti concreti, con scelte coraggiose. Per questo i cinque referendum non sono un dettaglio né un inciampo nel calendario politico: sono il cuore pulsante di questo Primo maggio. Sono l’occasione per trasformare l’indignazione in azione, la protesta in cambiamento.

Perciò basta la retorica, c’è una matita, stavolta, più potente di qualsiasi slogan. C’è una scheda, più pesante di qualsiasi comizio. C’è un voto, il nostro, che può rompere la favola e rimettere la verità al centro. Il lavoro non si celebra: si difende. Nelle piazze, nelle fabbriche, nelle urne.