Questione salariale, difesa dell’occupazione e precarietà: temi tutti collegati tra di loro. Sono questi alcuni tra i nodi più problematici che emergono dall’inchiesta nazionale sulle condizioni e le aspettative delle lavoratrici e lavoratori promossa dalla Cgil nazionale, coordinata dalla Fondazione Di Vittorio e condotta in collaborazione con le strutture della Confederazione. L’indagine, coordinata da Daniele Di Nunzio della Fondazione Di Vittorio, ha raggiunto 31 mila lavoratrici e lavoratori di tutti i settori pubblici e privati, tutte le dimensioni di impresa, tutte le tipologie contrattuali e anche a chi era senza contratto o disoccupato.

Quella delle retribuzioni è una ferita che da anni ormai affligge il corpo malato del nostro paese ed è per questo che è uno dei terreni di battaglia scelti con sempre maggiore impegno dalla Cgil – da ultimo le tre mobilitazioni di maggio – e che Collettiva sta seguendo con analisi e approfondimenti.

Con Nicolò Giangrande, economista e ricercatore della Fondazione Di Vittorio, cerchiamo di capire quali sono gli aspetti più interessanti – e purtroppo preoccupanti – che emergono dall’inchiesta sul tema delle retribuzioni. Una premessa: “Da una nostra elaborazione su dati Ocse – ci dice – tra il 2000 e il 2021 in Italia il salario lordo annuale medio reale di un lavoratore a tempo pieno è aumentato appena dello 0,5%. Nello stesso periodo le retribuzioni hanno fatto registrare aumenti del 17,1% in Germania e del 21,5% in Francia”.

I profili

Nel 2021 il salario medio osservato nell’intera economia italiana era di 29,7 mila euro lordi annui, un livello molto più basso rispetto a quello tedesco (43,7 mila euro) e francese (40,1 mila euro). 

Significativi i “profili” tra i quali in Italia si concentrano i salari più bassi e che danno uno spaccato assai esaustivo delle storture e delle ingiustizie del nostro mercato del lavoro. A partire dal genere: “Oltre la metà delle donne si concentra nelle classi di reddito più basse, cioè quelle fino a 20 mila euro netti annui, rispetto al 30,7% degli uomini”, ci dice Giangrande. 

Ma anche i giovani non se la passano benissimo. Ancora Giangrande: “Circa i due terzi degli under 35 si collocano nelle classi di reddito più basse e un’altra variabile molto indicativa è quella del titolo di studio: il 60,3% di chi ha la licenza media guadagna fino a 20 mila euro netti annui contro percentuali molto più basse per chi ha conseguito il titolo di scuola superiore o la laurea”. La precarietà Il tema dei bassi salari incrocia chiaramente anche quello delle tipologie contrattuali e del tempo di lavoro. Secondo quanto rilevato dall’indagine, infatti, nelle classi fino a 20 mila euro netti annui si concentra l’83,2% dei precari e il 37,5% di chi ha un contratto a tempo indeterminato.

Ovviamente anche il tempo di lavoro incide: l’82,4% dei part-time ricade nelle classi di reddito più basse, mentre solo il 33,5% dei full-time. “Questi due elementi – commenta il ricercatore della Fondazione Di Vittorio – contribuiscono a determinare il basso salario medio registrato nel nostro paese: tanto lavoro a termine, cioè precarietà, e tanto part-time”.

Il modello di sviluppo

La questione salariale è complessa e non può non essere strettamente collegata al modello di sviluppo che a sua volta condiziona il mercato del lavoro. “Ci sono ragioni strutturali alla base delle basse retribuzioni – riprende Giangrande –. Un modello di sviluppo basato su settori a basso valore aggiunto che si accompagna a una struttura produttiva fondata sulla microimpresa genera una domanda di lavoro meno qualificata e, quindi, meno retribuita”. Insomma: basso valore aggiunto, precarietà e meno ore lavorate per i tanti part-time involontari, soprattutto tra le donne, producono retribuzioni più basse.

“Nel 2021, nel settore privato, esclusi i settori agricolo e domestico, un dipendente full-time, a tempo indeterminato e senza discontinuità nell’arco dell’anno ha avuto un salario lordo annuale medio di circa 37,5 mila euro – conclude l’economista –, mentre chi era occupato a part-time, a tempo determinato e con discontinuità si è fermato ad appena a 5,8 mila euro l’anno. Il risultato complessivo è che, nel 2021, nel settore privato il salario medio è stato di 21,9 mila euro”.

Il che ci colloca, appunto, agli ultimi posti in classifica tra i paesi più sviluppati e mostra come per prendere di petto questo tema c’è bisogno di agire su più fronti: fisco, rinnovo dei contratti, politiche industriali per un nuovo modello di sviluppo, lotta alla precarietà. Ma il dibattito aspro di questi giorni sul salario minimo dimostra quanto con questo governo sia tutto molto difficile. Quanto alle politiche industriali, di queste neanche si discute.

Chi fosse interessato a ulteriori approfondimenti, li potrà trovare in una sezione dedicata di Collettiva, che contiene, oltre alla sintesi della ricerca, le schede prodotte con le categorie sindacali che approfondiscono le dinamiche per ciascun settore.

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