Nella comparazione economica tra Paesi l’evoluzione del reddito pro capite può essere paragonata ad una gara di endurance dove la classifica è determinata dalla variazione relativa del livello del reddito medio (in parità di potere d’acquisto) anno per anno. Gareggiano nel nostro caso, Italia, Europa a 12 paesi (EU12) e Usa. Il periodo va dal 1960 al 2022. Le posizioni relative sono misurate, a partire dal 1960, confrontandole con il reddito medio Usa.

Dalla banca dati Ameco della Commissione europea (elaborazioni con Alessandro Bellocchi dell’Università di Urbino) risulta, come ci si attendeva, che già all’inizio gli Usa sono in testa, mentre il reddito medio italiano non arriva al 57% (linea arancione) del corrispondente cittadino americano, e quello EU12 è poco sopra al 62% (linea blu). L’economia Usa rimane in testa per tutto il periodo, accrescendo il Pil reale pro capite di 27 volte, pur con un rallentamento del tasso di sviluppo che rimane però sempre superiore al 2% in media.

L’Italia vive invece tre diverse stagioni. Nel 1960, partiva da una posizione di svantaggio. Il reddito medio cresceva però a tassi “cinesi” del 7%, raddoppiando il suo livello in un decennio. Il “miracolo” economico e il “boom” sono l’emblema dello sviluppo: l’Italia cresce fino al 1963 e dal 1967 aggancia l’Europa e accorcia le distanze anche dagli Usa fino agli anni 80. Nel 1982 la differenza tra i Paesi si riduce ancora a vantaggio dell’Italia che raggiunge così la minima distanza dagli Usa con un reddito pro capite che è quasi l’82% di quello americano, superando la EU12 e assestandosi al secondo posto di questa speciale classifica.

Tuttavia, la strategia di gara italiana non prevede revisioni, né cambiamenti del “modello di sviluppo” che anzi si deteriora, cominciando a perdere nel tempo le grandi imprese, rallentando il processo innovativo e tecnologico, riducendo il rapporto capitale-lavoro, adagiandosi sulle svalutazioni competitive, interrompendo la dinamica di equilibrio tra salari e produttività, subendo la spirale inflazionistica, e cullandosi nel nuovo mito del “piccolo è bello” con conseguenze tutte negative per produttività, accumulazione e competitività.

Le iniezioni di finanza pubblica (che faranno crescere il rapporto debito-Pil dal 58% del 1980 al 122% del 1992) non saranno utili per riconquistare energia. Anzi ingolfano i “muscoli”. I problemi strutturali emergono nettamente con la fine anni 80 quando termina il decennio di galleggiamento e si entra negli anni 90 con la crisi del 1992 che apre la stagione della recessione.

Si arriva così all’ultima lunga frenata (dalla metà degli anni 90 ad oggi) che testimonia la perdita di energia del sistema Italia. Dalla corsa al passo. Dal passo alla fermata. Il reddito pro capite rallenta, l’economia italiana retrocede, e inizia la profonda fase di stagnazione (declino?) economica con perdite esiziali di decimi di reddito pro capite ad ogni giro di corsa.

Il dato è scoraggiante: nel 2022 il reddito medio italiano torna ad essere pari al 64% di quello Usa, come a metà degli anni 60, mentre quello EU15 resta ancorato in media al 75%. Quindi retrocediamo rispetto a tutti. Ci allontaniamo dall’Europa che conta. Da inseguiti a inseguitori. Da leader a follower.

Certo la gara non è finita. Ma per ripartire bisogna mutare strategia, alimentazione, preparazione atletica. Insomma, politica economica, del lavoro, industriale. Magari impiegando “bene” anche le risorse messe a disposizione dal NextGenerationEU, superando l’enigma del come e se utilizzarle. Perciò, tensioni crescenti in pista, in panchina e nello spogliatoio. Mentre il reddito medio cala. Cercasi allenatori.

Giuseppe Travaglini, docente di Politica economica, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo