È entrata in vigore a fine maggio, ma per la maggior parte dei professionisti non è cambiato niente. La legge sull’equo compenso, la 49 del 2023, è stata approvata il 21 aprile scorso con l’intento dichiarato di assicurare al lavoratore una retribuzione commisurata al valore della prestazione e di rafforzarne la tutela. Nella realtà, però, riguarda pochi e garantisce poco. Il perché è presto spiegato.  

Platea ristretta: 200 mila lavoratori

Innanzitutto la platea di riferimento è molto limitata. “La norma interessa meno di 200 mila professionisti su oltre tre milioni di lavoratori autonomi complessivi – spiega Federica Cochi, presidente di Apiqa, Associazione dei quadri professionisti e alte professionalità della Cgil -. Questo perché si applica solo ai grandi committenti: pubblica amministrazione e società a partecipazione pubblica, banche, assicurazioni, aziende con più di 50 dipendenti o almeno 10 milioni di euro di ricavi annui. Quindi rimangono escluse dall’obbligo di applicazione le piccole e medie imprese, e di conseguenza chi lavora con loro, ovvero l’80 per cento dei professionisti e degli autonomi con gestione separata”.

Della stessa opinione Roberta Turi, segretaria nazionale di Nidil Cgil: “Troppo ristretta la platea dei beneficiari, con un problema importante di reale rappresentanza all’interno dell’osservatorio di monitoraggio e poche le tutele per difendersi – spiega la sindacalista -. In questo modo sono escluse sempre e comunque le figure professionali più fragili che più avrebbero bisogno di supporto”.

Sanzione al contrario

Poi c’è la questione della sanzione, che è posta al contrario. In pratica, può ricadere sul lavoratore che accetta un retribuzione al ribasso. Agli ordini e ai collegi è affidato il compito di introdurre norme deontologiche per multare l’iscritto che viola le regole sull’equo compenso, con lo scopo di impedire pratiche di concorrenza sleale tra colleghi.

"In questo modo, nessuno è incentivato a denunciare un compenso che è inferiore ai termini di legge, se poi chi denuncia si becca la sanzione – prosegue Cochi -. È come se per combattere il lavoro nero e il sommerso si stabilisse di punire il lavoratore che opera in nero e non il datore che non mette in regola. È assurdo. Senza contare che è il lavoratore che si trova in posizione di debolezza e di inferiorità rispetto al committente, e non viceversa. Ed è per questo che spesso accetta condizioni di sfavore”.

Rappresentanza per pochi

Ma come viene fissato l’equo compenso? Questa è un’altra nota dolente. Per definire i cosiddetti parametri economici, la legge affida il compito di elaborazione e aggiornamento dei “tariffari” a un organismo composto da rappresentanti di ordini e collegi professionali, anche per quei lavoratori che non ne sono iscritti. Dell’osservatorio di monitoraggio faranno parte infatti solo cinque associazioni dei non iscritti agli ordini, scelti dal ministero delle Imprese senza criteri resi espliciti, e nessun sindacato. In sostanza, non a tutti viene garantita la rappresentanza.

“Noi avvocati abbiamo le tabelle aggiornate, ma per tutte le altre professioni con ordine c’è un decreto ministeriale che risale al 2012, quindi i parametri sono decisamente datati – spiega l'avvocata Teresa Tranchina, del Nidil Cgil Firenze -. Per loro le tabelle dovranno essere aggiornate con decreto, che dovrebbe essere varato entro due mesi. Stessa sorte per i criteri che dovranno determinare l’equo compenso per i professionisti sprovvisti di ordine”.

“La legge è pensata per tutti, ma non viene declinata per garantire rappresentanza a tutti, anche a quella miriade di professioni che non sono regolamentate – prosegue Cochi -. Con la Consulta del Cnel, con cui abbiamo lavorato intensamente, avevamo trovato un accordo ampio, che mirava a portare reali miglioramenti”. Poi, con il cambio di governo i passi fatti in avanti sono stati azzerati. E si è tornati indietro all’originale elaborazione della norma.

Nessuna risposta alla crisi dei redditi

Un’altra sproporzione enorme tra professioni ordinistiche e non, consiste nel fatto che per queste ultime non sono previste azioni collettive se un bando non rispetta l’equo compenso: la class action è un’opportunità, oltre che un deterrente, affinché la pubblica amministrazione e le grandi aziende rispettino gli standard.

“In Italia la crisi dei redditi continua a crescere, accomunando lavoro dipendente e autonomo – dice ancora la segretaria del Nidil Roberta Turi -: abbiamo oltre 340 mila partite Iva non ordinistiche che guadagnano mediamente 15.800 euro lordi all’anno. Soprattutto per i giovani e le donne, ma non solo, lavorare oggi non basta per vivere degnamente e domani non basterà per avere una pensione sufficiente. Sebbene sia un primo tentativo che riconosce la necessità di un intervento normativo a tutela del compenso dei professionisti, che sono finalmente visti come soggetti deboli del rapporto contrattuale con le imprese, la norma presenta pesanti limiti e criticità”.

Un compenso da contratto

“Chiediamo un tavolo perché bisogna discutere la gestione operativa di questa legge – conclude Cochi di Apiqa -.  Andranno posti dei correttivi per l’elaborazione dei parametri economici e nell’osservatorio vogliamo essere coinvolti. Noi puntiamo a superare anche le attuali definizioni di equo compenso, che dovrà essere determinato in termini di costo complessivo del lavoro, partendo dai minimi salariali previsti dai contratti. Nel nuovo contratto dei restauratori, per fare un esempio concreto, nell’allegato 6 è indicato il minimo salariale che va riconosciuto ai lavoratori autonomi e che deve corrispondere a quello fissato per i dipendenti sotto forma di costo complessivo. Per questo si dovrebbe partire dai contratti di riferimento”.