È una nuova classe operaia quella creata dall’e-commerce, addetti che seguono le indicazioni e le direttive fornite dalla tecnologia e che dalla stessa tecnologia vengono controllati nelle attività che svolgono. Parte da questa riflessione la ricerca sul lavoro in Amazon realizzata da Alessandro Delfanti, professore associato della facoltà di informatica dell’università di Toronto (Canada) confluita nel libro The Warehouse dello stesso autore, presto in Italia con il titolo “Il Magazzino”.

Uno studio che è entrato nel primo stabilimento aperto dalla multinazionale in Italia a Castel San Giovanni (Piacenza), basato su interviste a lavoratori ed ex lavoratori, visite all’interno di questo e di altri siti in Europa, Canada e Stai Uniti. Abbiamo raggiunto il professor Delfanti in occasione della giornata di mobilitazione globale Make Amazon Pay, promossa per il black friday del 25 novembre da una coalizione di 80 organizzazioni in oltre 30 Paesi, per chiedere che il gigante retribuisca in modo equo i dipendenti, paghi le tasse, compensi le emissioni di anidride carbonica prodotte.   

Delfanti, come nasce la ricerca?
Amazon è una delle più grandi multinazionali del capitalismo digitale. Impiega massicciamente tecnologie e al contempo milioni di persone in tutto il mondo. È un perfetto caso di studio: la sue capacità tecnologiche, organizzative e politiche sono in grado di cambiare il lavoro al di là dei muri dei magazzini e anche di sorvegliarlo, dettando il passo, aumentando i ritmi e pianificando i processi per dipendenti che sono sempre più sottomessi. Ci sono somiglianze con il lavoro di fabbrica di qualche decennio fa, quando il boom economico degli anni Sessanta investiva masse di persone che migravano da un sud rurale con la promessa di un’emancipazione. Anche oggi i lavoratori parlano di fabbrica e di catena di montaggio e quando entri in un magazzino hai la sensazione di entrare in una fabbrica.

A quali conclusioni è arrivato?
Innanzitutto che le tecnologie digitali, in particolare gli algoritmi che gestiscono i magazzini, sono usati per migliorare e gestire i processi ma anche per controllare la forza lavoro. La pistola sparacodice, uno strumento fondamentale, che comunica all’addetto dove andare nel magazzino per rintracciare la merce ordinata da qualcuno sul sito, può controllare il lavoratore. Per esempio, conta quanti pezzi ha prelevato in un’ora, calcola i suoi ritmi di lavoro, sa quando è andato in pausa. In più viene usata per porre domande sul grado di adesione all’azienda, del tipo: ti piace lavorare in Amazon?

Questo vuol dire che i processi digitali e l’informatica sono fondamentali. Ma sono destinati a sostituire l’essere umano? È questa la strada?
Ho analizzato migliaia di brevetti posseduti da Amazon, su tecnologie che potrebbero essere introdotte nel magazzino. Tutti danno per scontato che la forza lavoro nei magazzini rimarrà: aiutano a controllare meglio i lavoratori, ne aumentano la produttività, ma non sono destinati a sostituirli. Ci sono attività che si potranno sostituire, probabilmente ci saranno meno persone, ma la gran parte dei brevetti che ho visto parlano di un magazzino in cui le persone continuano ad avere un ruolo centrale.

Questa tecnologia verrà introdotta per favorire il lavoro umano, per alleggerirlo?
Lo scopo non è favorire il lavoratore ma gli scopi dell’azienda, per rendere le attività più efficienti, per aumentare i ritmi. I dipendenti saranno più soggetti a controllo, passeranno spesso attraverso sistemi di sorveglianza ancora più approfonditi, di monitoraggio più efficaci.

Con lo studio ha scoperto come vengono usati i dati raccolti da Amazon?
È molto difficile riuscire a scoprire come vengono usati i dati raccolti, non ho avuto accesso a quello che succede dietro le quinte. Quello che posso dire è che tutte le aziende che usano algoritmi e sistemi di sorveglianza mancano di trasparenza. Vale anche per le multinazionali del delivery, che non ti dicono in modo trasparente come viene scelto un rider al posto di un altro per consegnare una pizza. Amazon non è originale da questo punto di vista.

Come vivono questo aspetto i lavoratori?
Basandomi sulle esperienze che mi sono state raccontate e sulle informazioni raccolte, posso dire che i lavoratori si sentono controllati e sorvegliati, spesso hanno incontrato queste informazioni sotto forma di conversazioni tra i capi o perché gli è stato detto: oggi sei troppo lento, non stai raggiungendo la quota, devi accelerare. Non vengono mai forniti numeri precisi sulle prestazioni, ma i dati vengono usati in modo informale per le comunicazioni che i manager fanno sui ritmi di lavoro.

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