È comprensibile che Confindustria parli di “sciopero sbagliato”. Ci mancherebbe che il signor Bonomi appoggiasse uno sciopero e soprattutto questo sciopero che si rivolge a quella platea di concittadini meno fortunati di lui, perché magari nati poveri e poveri destinati a restare in quel paese, da lui quest’estate, definito Sussidistan, che invece è solo un paese come tanti con tutti gli ascensori sociali rotti.

È comprensibile che una larga parte di commentatori che scrivono su giornali i cui editori non sono onlus o cooperative di mutuo soccorso ma imprese o banche, si scaglino contro l’inopportunità di una iniziativa di mobilitazione che guarda agli interessi di chi è povero o rischia di diventarlo. Poi c’è modo e modo di farlo. Definire ad esempio la Uil “piccola” in quanto prona alla Cgil, quando nessuno si sarebbe sognato di dire il contrario qualora Bombardieri avesse optato come il suo predecessore Angeletti, per il più rassicurante abbraccio con la Cisl, è una affermazione poco sensata e un filino irriguardosa verso l’autonomia della Uil medesima.

Affermare che questa manovra guarda anche ai ceti bassi perché eroga qualcosa come poco più di un centinaio di euro di sgravi, tacendo che ai ceti medio alti, quegli euro diventano fino a 7 volte tanto è veicolare una informazione parziale e del tutto fuorviante. Si può essere stipendiati ma anche oggettivi, anche l’asilo dove il padrone vuole lo si può mettere con garbo.

Alcuni di questi giornalisti o opinionisti, affiancati poi da politici per lo più di area centrista (se esiste ancora) più esperti in genere di Twitter che di politiche dei redditi, si sono spinti a stracciarsi le vesti sulla unità sindacale infranta, sul suo valore, soprattutto in era di Covid-19, e alla vigilia di Natale, dove i tre leader sindacali avevano già una scrittura nel presepio draghiano, come re Magi che portano in dono stabilità, responsabilità e consenso.

Per costoro, se due organizzazioni sindacali prendono una strada, e una un’altra, la colpa della rottura non è di quella che si ferma ma delle altre due che indicono uno sciopero per portare avanti rivendicazioni cristallizzate in piattaforme unitarie da tutte e tre condivise. Strano che la rottura sindacale avvenga sempre quando qualcuno decide di passare dal “dire” al “fare”, dai commenti sulle piazze virtuali ai comizi in quelle reali.

Poi c’è l’ingrediente universale che fa lievitare ogni sdegno: la retorica della responsabilità al tempo della pandemia, che suggerirebbe di non alzare i toni, di starsene “zitti e buoni” in casa, di non andare in piazza, di evitare manifestazioni pubbliche, come alcuni zelanti prefetti hanno imposto, attenti però a salvaguardare il diritto di assembrarsi per lo shopping natalizio o per processioni religiose.

Peccato che di eccesso di responsabilità i sindacati siano ancora accusati quando in tutt’altra epoca, con un paese alle pezze, indissero 3 ore di sciopero contro la legge Fornero. Forse che il richiamo alla responsabilità vale solo per chi come il sindacato le responsabilità se le è sempre assunte e diventa opzionale per chi, politica in primis, ha delegato ad altri l’onere della scelta?

Se questo sciopero ha avuto un primo eclatante risultato è quello di provocare un colossale disvelamento della narrazione dominante che vede l’ennesimo deus ex machina, calato stavolta dalla Bce in questa landa desolata, risolvere tutto per tutti, purché lo si lasci fare. E lo stanno lasciando fare davvero, la politica in primis, perché super Mario è il suo green pass rafforzato per la sopravvivenza, una politica fintamente inconsapevole che la presenza di Draghi invece certifica la propria totale inadeguatezza.

Lo sciopero, si diceva, mostra l’Italia vera, quella che i partiti ignorano, finanche schifano. L’Italia dei tempi determinati a vita cui le banche non danno un mutuo manco a piangere, l’Italia delle lavoratrici col part time obbligato e orari assurdi, costrette a elemosinare ore di straordinario, l’Italia delle piattaforme logistiche dove invecchi a sbancalare a ogni ora del giorno e della notte, l’Italia dei pensionati che fanno da bancomat per figli e nipoti e che rinunciano a curarsi, l’Italia dei giovani che entrano nel mercato del lavoro adesso e andranno in pensione a 71 anni, l’Italia sempre più vecchia e curva che non fa figli perché poi ci vogliono i soldi per mantenerli, che vede il suo welfare assottigliarsi e vede già svanire l’ennesima promessa di un futuro migliore.

Non è detto che tutte queste persone sciopereranno, anzi probabilmente molte non lo faranno, ma chi lo farà lo farà anche per loro. E se i sindacati se ne fanno carico, fanno il sindacato, quale sarebbe il problema? Cosa non convince? Perché la Costituzione chiamata in causa a sproposito da turbe stravolte di no-vax, lese nel diritto di fregarsene del prossimo, non va rispettata quando si tratta di applicare quel “fondata sul lavoro” che è la sua base e il suo tratto distintivo?

Mentre ci prepariamo dalle nostre quotidiane trincee territoriali all’appuntamento del 16 dicembre, con un lavoro faticoso di organizzazione e volontà che in pochi conoscono, mentre assieme ai consueti cappellini prepariamo anche gli elmetti, per difenderci dai nemici di sempre che ci conteranno col pallottoliere e diranno che eravamo quattro gatti, mentre come sempre facciamo tutto questo, tra le altre cose, noi a Reggio Emilia, abbiamo deciso di sfilare con un nuovo striscione lungo 7 metri. Su quello striscione ci sarà stampato uno slogan che può valere come risposta per chi non ci ama oggi, non ci ha mai amato e pertanto non ci amerà domani ma anche come motto del nostro orgoglio che ancora ci sorregge: “Responsabili SEMPRE, Subalterni MAI”. 

Cristian Sesena, segretario generale Cgil Reggio Emilia