Da bracciante poverissimo e semianalfabeta nella Puglia dei primi anni del Novecento a fondatore del più grande sindacato dell’Italia democratica, deputato all’Assemblea costituente, esponente di spicco del Pci nel dopoguerra e presidente della Federazione sindacale mondiale. Una vita, quella di Giuseppe Di Vittorio, avventurosa e intensa, che spesso sfiora i confini della leggenda. Se Togliatti è il capo indiscusso della classe operaia, Di Vittorio è il mito, un mito che nasce dalla sua identificazione totale con il mondo del lavoro, in un riconoscimento trasversale e assoluto. 

Lo volevano bene anche le pietre”, dicevano i suoi braccianti, ed è proprio questa l’immagine che dalla storia ci viene restituita: quella di una persona presente, empatica e attenta, dall’immensa personalità e carica umana. Un uomo, prima che un politico o un sindacalista, circondato da affetto vero, amato da familiari, compagni e lavoratori, stimato dagli stessi avversari come antagonista duro, ma leale.

Giuseppe Di Vittorio muore il 3 novembre 1957 a Lecco, dove si era recato per inaugurare la nuova sede della locale Camera del lavoro. Il viaggio della salma è indimenticabile. Ad ogni stazione ferroviaria il treno deve sostare più a lungo per la folla che, a pugno chiuso, si riversa nelle piazze per salutare Peppino. Tre giorni dopo, in una Roma attonita e commossa, si svolgeranno i funerali. “Il dolore della folla si è espresso profondo e acuto come quello di una famiglia”, scriveva su l’Unità Paolo Spriano. “Forse neppure Di Vittorio immaginava di avere tanti amici, tanta gente di ogni ceto sociale che se ne partiva ora di casa, e veniva qui a gettargli un fiore, e dirgli che gli voleva bene”.

“Diecimila, ventimila persone? - scriveva ancora il quotidiano comunista - Impossibile fare un calcolo. Così come è impossibile descrivere il sentimento della gente, la commozione che era nel volto di tutti: Giorgio Amendola con gli occhi rossi di lacrime, Longo con le labbra serrate, Pajetta con lo sguardo annebbiato dal dolore, una donna vestita di scuro con le guance rigate da due lacrime accorate, un impiegato che aveva afferrato le mani di Lizzadri e singhiozzava come un bambino. Per ore e ore quasi ininterrottamente fino a tarda notte e poi dall’alba fino alle 16, una fiumana di gente ha sfilato commossa davanti alle spoglie del segretario generale della Cgil, nell’atrio della Confederazione, in Corso d’Italia, trasformato in camera ardente. Erano lavoratori romani, operai, impiegati, professionisti, uomini politici, compagni, amici, avversari di Giuseppe Di Vittorio (…). C’erano camerieri con ancora indosso la giacca bianca, vigili notturni, telefonisti, gente che era appena uscita dai teatri, uomini di tutte le età che, forse, di Di Vittorio conoscevano soltanto il volto bruno e amico riprodotto dai giornali (…) Tutti i negozi, lungo il percorso avevano abbassato le saracinesche, così i cinema e i caffè. Pareva che tutta la città si fosse data questo mesto appuntamento e che si confondesse così ogni distinzione di ceti sociali, di età, di mestiere. Mischiati fra la folla abbiamo visto volti noti di amici, di operai e di intellettuali. Vasco Pratolini piangeva accoratamente in prima fila lungo l’ala destra di corso Italia; tipografi del giornale, fattorini, commesse di negozi, studenti, giardinieri di villa Borghese, pensionati delle ferrovie, operai in tuta della sede Pirelli, vicino a Piazza della Croce Rossa: tutti sostavano lungo il percorso. Era davvero come se fossero presenti qui i lavoratori di tutta Italia, quegli operai che tenevano ritratti di Di Vittorio nelle stanzette delle Commissioni interne, nei saloni delle Camere del lavoro, quei braccianti, quei mezzadri, quegli impiegati di ogni corrente sindacale e politica per i quali il nome del segretario della Cgil era prima di tutto il nome di un compagno e di un amico prezioso”. “Roma, il suo popolo, l’Italia del lavoro hanno tributato a Giuseppe Di Vittorio una manifestazione grandiosa, quasi indescrivibile di cordoglio e di affetto”, scriverà ancora Paolo Spriano.

Una Roma commossa e attonita che Pasolini descrive così:

Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città. Salgo da Porta Pia, piano e un poco svogliato L’atmosfera è com’è ai margini degli avvenimenti pubblici: tempestosa, senza colore e quasi senza suono. Cominciano a fermarsi i primi autobus, le automobili, isteriche, qua e là, protestano con angosciosi e brevi suoni di clacson. Guardo la gente, che va verso il Corso d’Italia, come me, o che resta lì, a Porta Pia: dei giovani che non distinguo bene si sono arrampicati sul monumento al bersagliere, lasciando sotto il piedistallo una frotta di motori. Ci sono soprattutto uomini anziani, operai e impiegati, e molte donne, umili e non giovani. C’è un vento magro di autunno, con una luce settentrionale, bianca e confusa. E un grande silenzio, che i rumori, attutiti e come laceri del traffico, rendono più strano. Ormai di qua e di là del Corso d’Italia le ali della folla sono fitte: nel centro della strada passano reparti di polizia: se ne vanno come inesistenti. Non c’è inimicizia tra loro e la folla (…) Il Corso d’Italia è in curva, sotto le mura: e la folla che si assiepa ai margini è sconfinata. Un vecchietto si guarda intorno, intimidito, e dice a un suo compagno, che gli è accanto silenzioso: “Vengono spontanei….”. E guarda, umile, la folla degli uguali a lui. Vado ancora un poco avanti, sul largo marciapiede. Come vedo uno spiraglio, mi fermo, sotto un albero, mezzo spoglio, ormai, ma ancora pieno dell’estate romana che non vuol morire mai. Due uomini, non due ragazzi, vi si sono arrampicati, e stanno a cavalcioni dei rami in silenzio, con sotto, appoggiate al tronco, le loro biciclette. Passa di lì un giovanotto, un baldo giovanotto della campagna, e, col suo accento greve, avvicinandosi all’albero e guardando in alto pieno di speranza, dice: “Compagno, me dai na mano?”. Uno dei due sull’albero, in silenzio, piano piano, lo aiuta a salire. Davanti a me ci sono quattro o cinque uomini sui quaranta o cinquant’anni, operai, qualcuno con la moglie, che se ne sta un po’ in disparte, raccolta, quasi i funerali di Di Vittorio fossero una cosa che riguardasse soprattutto gli uomini.
Cominciano in silenzio ad avvicinarsi le corone: una folla che passa attraverso la folla, sterminate l’una e l’altra.
Migliaia e migliaia di uomini e di donne, quasi tutti vestiti con abiti che non sono di lavoro, ma neanche quelli buoni, della festa: gli abiti che indossano la sera, dopo essersi lavati dall’unto o dal fumo, per scendere in strada, sulla piazzetta. Non si vedono stracci, né i maglioni o i calzoni dell’eleganza romana della periferia. Tutti hanno facce forti, oneste, cotte dalla fatica e dagli stenti. Per me, è la prima volta che Roma si presenta sotto questa luce. Rovesciati qui, dal silenzio che ne avvolge le esistenze, che pure sono la parte più grande della città, umilmente dimostrano quale sia la forza della coscienza. Dimostrano che la storia non ha mai soste. Il romano anarchico, scettico, scioperato, leggero ha già acquisito questo volto, questa durezza, questa umile certezza. Io non so dire quanta parte abbia avuto, in questa evoluzione, l’uomo il cui corpo viene portato oggi al cimitero. Penso grandissima se questi uomini lo sentono con tanto spontaneo e sconcertante affetto. Penso che certo non c’è bisogno che nessuno glielo dica, che hanno perduto un fratello: tanto sono pieni di muta, disperata gratitudine. Passa la banda, passano altre corone, a decine e decine portate da operai, operaie, ragazzi. Ecco il feretro: molte braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un silenzio pieno come di un interno, accorante frastuono. Anche gli uomini che sono davanti a me, a uno a uno, alzano il braccio, a fatica, come se il pugno dovesse reggere un peso insopportabile, e restano così, con quel braccio teso in avanti, quasi ad afferrare, a trattenere qualcosa che loro stessi non sanno, una vita di lotta e di lavoro, la loro vita e quella del compagno che se ne va.
Guardo quelle schiene un po’ deformate dalla fatica, sotto i panni quasi festivi, quelle spalle massicce, quei colli nodosi; sono uomini induriti da una infanzia abbandonata a se stessa, da un precoce lavoro, dalle continue difficoltà del sopravvivere, dalla rozzezza di un’esistenza ridotta al puro pratico, e spesso solo all’animale, dalla corruzione dei quartieri dove vivono. Incalliti dappertutto. Ma come il feretro è appena passato, e le braccia tese s’abbassano, vedo dal loro atteggiamento che qualcosa accade dentro di loro. Uno, davanti a me, piega un poco la testa da una parte: vedo la guancia lunga, nera di barba e il pomello rosso. La pelle gli si contrae, come in uno spasimo: piange, come un bambino. Guardo anche gli altri. Piangono, con una smorfia di dolore disperato. Non si curano né di nascondere né di asciugare le lacrime di cui hanno pieni gli occhi”

“Altri parlavano meglio di Lui - dirà il giorno del funerale Pietro Nenni - Altri scrivevano meglio di Lui. Altri erano più dotti nel citare pagine di Marx o di Lenin. Nessuno ha eguagliato il patos umano della sua eloquenza e della sua azione. Se stasera tutta la Roma del popolo è attorno al suo feretro, è perché nessuno meglio di Lui ha saputo interpretarne l’animo”.

“Di Vittorio è morto - scriverà su Lavoro Gianni Toti - e nessuno forse potrà mai più sostituirlo nel cuore degli italiani, prendere quel posto che vi occupava, dove affondava radici col diritto del buon seme. Ma lo sgomento dei primi giorni sta già trasformandosi in una dolorosa eppure costruttrice presa di coscienza. Così totale, così unanime il dolore dei lavoratori che già appare come una forza nuova, un rinascere di Giuseppe Di Vittorio nella testimonianza unitaria del dolore. Tutti insieme, forse... Abbiamo sentito ripetere spesso questa frase, durante i funerali. Tutti insieme certamente: si risponde già. E non è stato forse il movimento a costruirsi ‘a sua immagine e somiglianza’ il suo dirigente? E il dirigente sorto dal popolo non era forse popolo egli stesso, fatto di tutti noi? Certo, non sarà facile. Dovremo lavorare meglio, studiare di più, più lucidamente e più democraticamente discutere, raccogliere le forze e saggiamente disporne. Ma niente è più falso della ipocrita considerazione propagandistica svolta dai giornali dell’avversario, secondo la quale la morte di Di Vittorio provocherà una crisi catastrofica nel movimento sindacale unitario. Sarà proprio la coscienza del vuoto profondo che Di Vittorio lascia nelle file del movimento che potrà trasformarsi in una spinta più forte, che scaturisca dalle correnti sotterranee e creative dello spirito popolare”.

Una "coscienza del vuoto profondo che Di Vittorio lascia" che ancora oggi sentiamo e che cerchiamo di colmare ricordandolo, leggendolo, studiandolo, non dimenticando mai gli insegnamenti ricevuti nella speranza e nell’impegno di tradurli in fatti concreti.

“Lavorate sodo, dunque, e soprattutto lottate insieme, rimanete uniti. Il sindacato vuol dire unione, compattezza. Uniamoci con tutti gli altri lavoratori: in ciò sta la nostra forza, questo è il nostro credo. Lavorate con tenacia, con pazienza: come il piccolo rivolo contribuisce a ingrossare il grande fiume, a renderlo travolgente, così anche ogni piccolo contributo di ogni militante confluisce nel maestoso fiume della nostra storia, serve a rafforzare la grande famiglia dei lavoratori italiani, la nostra Cgil, strumento della nostra forza, garanzia del nostro avvenire. Quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, ognuno può dire alla propria donna, ai propri figliuoli, affermare di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere. Buon lavoro, compagni”.

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