Negli ultimi mesi si sono moltiplicate le segnalazioni sul prossimo crollo delle iscrizioni all’università, conseguente al calo delle nascite che oramai caratterizza la società italiana. Le prime avvisaglie sono state lanciate lo scorso anno, tra gli altri da un rapporto Mediobanca che sottolineava una diminuzione del 21% degli iscritti nel 2040, poi ripreso da Svimez, che ne rimarcava l’impatto sul Mezzogiorno. Quelle indicazioni, in realtà, non trovarono particolare ascolto, forse perché evidenziavano il cronico sottofinanziamento italiano e la necessità di aumentare la spesa pubblica.

Il vero e proprio allarme è però arrivato con gli Stati generali dell’Università e il convegno "Per un’università nuova in un’Italia migliore” (Senato, 27 febbraio 2025), in cui Stefano Paleari (già Rettore a Bergamo e presidente Crui, attuale consigliere del ministero) ha sottolineato come alcuni atenei siano addirittura a rischio di estinzione, anche per una supposta struttura degli organici sbilanciata, che richiederebbe una revisione profonda dell’organizzazione accademica, delle politiche di reclutamento e dei percorsi di carriera.

Un taglio inatteso

Si coglie allora il senso dell’allarme. Lo scorso anno era arrivato l’inatteso e sorprendente taglio di 500 milioni di euro al Fondo di finanziamento agli atenei che aveva innescato inusuali reazioni e polemiche pubbliche della Crui con il ministero. Questa contrazione di risorse rimane consistente anche nel 2025. Questa drammatizzazione serve infatti a giustificare le attuali politiche di razionalizzazione, anche con importanti interventi di precarizzazione e revisione di sistema (vedi il dl 45/2025, con Incarico di Ricerca e Post-doc; il ddL sulle nuove procedure di reclutamento dei docenti, AS 1518; la legge-delega su governance, stato giuridico del personale e autonomia didattica degli atenei, AS 1192; AC 2392).

Il punto, però, è se il crollo delle immatricolazioni e le sue conseguenze di sistema siano vere. I dati presentati agli Stati generali dell’Università ne stimano una riduzione dalle attuali 330.000 a 250-280.000 nel 2040 (vedi il grafico di seguito). La realtà potrebbe però esser diversa, anzi sarà necessario fare in modo che lo sia, e in ogni caso questi dati vanno inquadrati in un contesto.

Allarme giustificato?

Il deperimento demografico, certo, è realtà. I nati in Italia erano oltre 500.000 sino al 2014 e poi hanno visto una rapida flessione negli anni successivi, arrivata a oltre il 20% nel 2021 (400.000 nati) e poi proseguita (nel 2023-2024 ci sono stati 360-370.000 nati). Gli immatricolati all’università dovrebbero comunque rimanere sostanzialmente stabili sino al 2030 e il calo dovrebbe quindi impattare nel successivo decennio, raggiungendo un picco come dichiarato dopo il 2040.

Però gli allarmi non tengono conto di un dato, anzi due.

I docenti sono molto pochi rispetto agli studenti. Le analisi di Education at Glance 2022 ed Eurostat sono convergenti: la Germania ha un rapporto 1:11, la Polonia e la Spagna 1:12, la Francia 1:16/18, l’Italia 1:20. La media Ue è 1:15 Un recente documento della Corte dei Conti segnala tra l’altro che questo rapporto tiene conto anche dei docenti a contratto (oltre 33.000): quello del personale di ruolo sarebbe intorno a 1:30. Insomma, l’università italiana ha attualmente aule molto capienti e il calo di immatricolazioni riporterebbe semplicemente in linea questo rapporto con quello del resto d’Europa. Senza alcun bisogno di ribilanciare gli organici, senza alcun dramma od estinzione per gli atenei.

In Italia gli studenti sono pochi

Anche gli attuali studenti però sono pochi. La Germania ha oltre 3,4 milioni di iscritti a corsi universitari (su una popolazione di 83 milioni); la Francia ne ha 2,8 milioni (su 65,5 milioni); la Spagna 2,3 milioni (su 48,8 milioni); la Polonia 1,4 milioni (su 36,5 milioni). L’Italia ha 2 milioni di iscritti (USTAT 2025), cioè meno di tutti gli altri paesi in rapporto alla popolazione.

Dalla comunicazione della presidente Crui, Giovanna Iannantuoni, agli Stati generali dell'università

Inoltre, oltre 305.000 sono iscritti ad atenei telematici, oltre 260.000 ad atenei di fatto profit che hanno convogliato il 70% della crescita dal 2016 a oggi. Così, mentre gli altri sistemi universitari hanno perseguito i traguardi posti da Lisbona 2020 arrivando dal 30 a oltre il 44% di giovani laureati (Eurostat), in Italia si registra un divario crescente: oggi i giovani laureati del nostro paese sono il 30%, in crescita di 10 punti rispetto vent’anni fa, ma lontani dagli obbiettivi e, soprattutto, ancor più lontani dal resto d’Europa. Secondo una stima della Flc Cgil, per garantire i tassi di formazione terziaria degli altri paesi europei oggi avremmo bisogno di almeno 700.000 iscritti in più, in particolare, nei corsi di laurea triennali e professionalizzanti. Il problema, però, non è l’offerta didattica, ma gli squilibri del mercato del lavoro e le alte soglie di ingresso, tasse e costi di frequenza.

Allora, l’effettivo calo demografico, che è un problema da innumerevoli punti di vista, non comporta in realtà nessuna delle conseguenze paventate per l’università, a partire da eventuali estinzioni di atenei o sbilanciamenti degli organici. La previsione del calo mantiene comunque stabili gli attuali tassi di immatricolazione, quando la società e il paese avrebbero bisogno di un significativo salto di qualità, che inevitabilmente dovrebbe passare per un’espansione dell’università italiana, oltre che di un suo rilancio di sistema, come segnala il Piano straordinario di allargamento degli organici e stabilizzazioni avanzato lo scorso febbraio dalla Flc.

Luca Scacchi, responsabile Forum docenza universitaria Flc Cgil

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