Rassegna Sindacale è uno dei giornali che subirà un taglio, quanto ampio nessuno è in grado attualmente di sapere con certezza, nei contributi che le arrivano dal finanziamento pubblico dell’editoria. Questo finanziamento ci arriva per il fatto che il nostro settimanale è edito da una cooperativa di giornalisti, costituitasi nel 1993, provvista di tutti quei requisiti (primo fra tutti quello – che a quanto pare non è stato sempre e così rigorosamente preteso da altri – di essere una cooperativa vera) che l’hanno fatta “meritevole” di essere sostenuta dall’intervento pubblico. La cifra che riceviamo è di circa 500 mila euro, sempre la stessa da quindici anni; essa rappresenta un sesto del nostro bilancio, ma senza di essa non saremmo riusciti in tutti questi anni a mantenere il bilancio in pareggio, o con leggeri attivi che abbiamo saggiamente destinato al fondo di riserva, in previsione dei periodi difficili che in quest’arco di tempo si sono manifestati e che grazie alla nostra prudenza siamo sempre riusciti a superare. Noi siamo una cooperativa che applica regolarmente i contratti di lavoro dei giornalisti e dei grafici amministrativi, onora con scrupolo gli obblighi con i fornitori, ha creato lavoro vero per qualche decina di giornalisti e professionisti dell’editoria, ha garantito la regolare pubblicazione di un settimanale “glorioso” (così lo definiscono anche i nostri avversari) come Rassegna Sindacale, ha dato vita a una serie di pubblicazioni sul lavoro e il sindacato, tra cui un mensile sulla sicurezza rivolto agli Rls, su cui scrivono esperti interni e esterni alla Cgil; siamo stati tra i primi a intraprendere la strada dell’editoria on line con un sito di informazione (www.rassegna.it) che è ormai il più visitato tra quelli che si occupano di lavoro ed economia sociale e che proprio in queste ultime settimane, radicalmente rinnovato, ha fatto registrare un record di accessi entrando così nella fascia di quelli considerati interessanti anche ai fini dell’investimento pubblicitario. Su questo sito si può vedere la nostra web tv, con servizi giornalistici che indagano sul lavoro, in particolare quello dei giovani, e sempre nel nostro sito si apre una pagina di cultura e storia, la web tv 100 Cgil, in cui si raccontano e documentano memorie e immagini che stentano a trovare ospitalità da altre parti.

La nostra attività è dunque ampia. E si è mossa sempre tenendo conto del fatto che essendo destinatari di un finanziamento pubblico siamo tenuti certo all’impegno di svolgere con chiarezza e senza ipocrisia la nostra funzione di “parte” ma anche di rispondere al dovere di farlo non smarrendo mai il senso del bene pubblico dell’informazione che pur con tutta la nostra parzialità siamo chiamati con tutto il resto della libera stampa di questo libero paese a garantire. Abbiamo scelto per questa ragione di rendere accessibile a tutti on line l’archivio storico del nostro giornale (oltre cinquanta anni di pubblicazioni) e a distanza di alcuni giorni dalla spedizione agli abbonati il numero più recente di Rassegna. E’ questo il motivo per il quale offriamo gratuitamente le nostre news. Non è forse anche questo un modo di legittimare, oltre la legge o meglio andando diritti al suo spirito, il finanziamento pubblico di cui siamo titolari?

Il taglio di fondi che Rassegna Sindacale subirà, nel caso trovino conferma le risorse poste in finanziaria annunciate dal sottosegretario Bonaiuti e non vengano apportate significative modifiche al nuovo regolamento sui contributi all’editoria presentato dal governo, è consistente. Pagheremo una prima volta con la riduzione dei contributi diretti e una seconda volta con il taglio di quelli indiretti legati alle agevolazioni tariffarie postali. Proviamo ad azzardare qualche cifra. Se il monte complessivo del fondo destinato ai contributi diretti restasse invariato rispetto a oggi noi perderemmo circa 80 mila euro. La penalizzazione è frutto di un meccanismo che abbassa la soglia del minimo fisso (da 500 mila a 300 mila euro) e mentre vorrebbe premiare, riconoscendo una quota di 0.20 euro per copia distribuita, i giornali presenti in edicola (obiettivo condivisibile) finisce per punire quelli venduti per abbonamento e attraverso canali distributivi alternativi: per noi si tratta delle vendite dirette (e si tratta di vendite vere), per altri si tratta di vendite effettuate attraverso punti vendita serviti direttamente e non attraverso la intermediazione, a volte addirittura truffaldina, di agenzie di distribuzione. Per le agevolazioni tariffarie il nuovo sistema si presenta addirittura come una mina che può esplodere con esiti devastanti. Attualmente, infatti, posto un ipotetico costo standard di 0.28 euro riconosciuto alle poste per le spedizioni dei giornali la tariffa realmente praticata alle nostre pubblicazioni è pari a circa 0.12-0.14; ciò significa che lo Stato risarcisce le poste del mancato introito pari a 0.16-0.14  euro per copia. Per Rassegna Sindacale ciò significa che di fronte a una spesa annua effettivamente sostenuta per la postalizzazione pari a 164 mila euro (metà dei quali dovuti all’utilizzazione della posta veloce con consegna entro 24 ore, e i nostri abbonati sanno che purtroppo troppo spesso non è così) lo Stato aggiunge circa 75 mila euro versati direttamente a Poste italiane (per Il Sole 24 Ore il contributo statale – è stato ricordato – è di 13 milioni di euro, quanto quella società editrice distribuisce in dividendi ai suoi soci). Il nuovo Regolamento cambia criteri, ma anche qui la modifica rischia d’essere avvelenata. Il testo stabilisce difatti che lo Stato rifonderà alle poste solo il 50% del prezzo da esse praticato al migliore cliente (si suppone – secondo una ricerca di Mediacoop - tra 0.11 e 0.12), ciò significa semplicemente che l’entità del risarcimento per le agevolazioni non sarà in nessun caso superiore a 0.5-0.6 euro a copia spedita, al di là del prezzo realmente praticato per tutti i clienti, anche quelli che non essendo considerati migliori subiscono tariffe più alte. Per Rassegna, e tutti gli altri giornali dello stesso tipo e volumi postali, è una perdita secca rispetto a oggi che, per quanto ci riguarda, possiamo calcolare in circa 33 mila euro. Ma che può trasformarsi in un onere molto più alto in assenza di una norma che stabilisca quale sia il prezzo massimo da esigere ai giornali di editori medi e piccoli. Dunque, senza riduzioni del fondo dell’editoria, l’applicazione del nuovo sistema comporterebbe, a essere ottimisti, per il nostro giornale un taglio di più di 110 mila euro: tanto, ma ce ne faremmo una ragione e nell’impossibilità di rimediare ci riorganizzeremmo di conseguenza, riducendo le poche spese ancora riducibili e incrementando le entrate ancora incrementabili.

Il problema, però, non finisce qui. I conti che abbiamo fatto si basano sull’ipotesi, puramente accademica, di un mantenimento del fondo a livelli pressoché pari agli attuali. In realtà il governo ha già scartato questa possibilità, non solo con le affermazioni “rattristate” di Bonaiuti ma soprattutto con gli stanziamenti destinati all’editoria nel famigerato articolo 44 del decreto estivo di Tremonti. Se stiamo alle anticipazioni di Bonaiuti, riguardanti la finanziaria prossima ventura, il fondo disponibile per il 2009 sarà, tra contributi diretti e indiretti, di 261 milioni di euro (saranno 265 nel 2010 e 197 nel 2011); oggi è di 500-540 milioni – compresi ratei arretrati, agenzie satellitari, energia per le emittenti radio e tv -  ed è già insufficiente perché occorrerebbe che fosse di 598 per far fronte all’intero fabbisogno (lo dice lo stesso dipartimento dell’editoria, che omette di precisare che il gonfiamento è avvenuto per “sviste” legislative e interpretazioni generose sui requisiti d’accesso di cui negli anni si sono negli anni resi protagonisti gli stessi che ora soloneggiano sui rimedi). Se si considera che le agevolazioni postali assorbono ora più di 300 milioni di euro ne consegue che per stare dentro le cifre destinate alla copertura del fondo del prossimo anno il taglio sarà selvaggio e destinato a fiaccare aziende, come quelle cooperative, già deboli istituzionalmente dal punto di vista patrimoniale e nella maggioranza dei casi (non è quello di Rassegna) esposte con le banche che anticipano loro i contributi statali, liquidati da sempre con clamorosi ritardi. Il decreto Tremonti ha fatto, però, di peggio, né sembra che la sua dubbia costituzionalità in questa parte, preoccupi il governo più di tanto. Il provvedimento dello scorso luglio non si è limitato a mutilare i contributi diretti (e solo questi) ai giornali cooperativi e di idee in misura assolutamente spropositata (addirittura di due terzi se il governo volesse pagare per intero il debito contratto negli anni passati con le poste). È andato ben al di là, cancellando con un colpo solo il cosiddetto “diritto soggettivo” delle testate cooperative a ricevere i contributi dello Stato, introducendo la norma che detto contributo è subordinato alle disponibilità di bilancio e che, dunque, nel caso queste risultassero insufficienti si dovrà provvedere riducendo la cifra dovuta a ciascuno in misura percentuale alla quota mancante. Ora, un diritto è un diritto. Se uno matura il diritto di ricevere una cifra x non si può poi dire che questa cifra è però subordinata all’entità delle risorse disponibili; si può dire – come si è già detto più volte nel passato – che il fondo non è sufficiente per quell’anno e che pertanto si procederà a liquidazioni parziali, ad anticipi, salvo poi completare l’erogazione quando le risorse saranno state reperite. Ma ciò che si dice adesso è altra cosa e produce un danno irreparabile. La combinazione tra la riduzione dei fondi e l’applicazione del nuovo regolamento dà luogo a una miscela esplosiva, rende impossibile alle imprese azzardare qualsiasi bilancio (quale somma potranno scrivere nel budget di inizio anno? In quel momento, infatti, si conoscerà tutt’al più la cifra complessiva disponibile – se la finanziaria sarà approvata in tempo - ma se le cose dovessero cambiare nel corso dell’anno per la comparsa o la scomparsa di qualche tesoretto? E quando si conosceranno quali e soprattutto quanti saranno i soggetti che ogni anno avranno titolo a dividersi il contributo?) e conseguentemente le rende inaffidabili nei confronti delle banche. Ecco perché, tornando a Rassegna, noi stimiamo che la nostra quota del contributo potrebbe ridursi della metà, oltre a un’altra fettina che con ogni probabilità ci verrà sottratta, per lo stesso discorso, dal nuovo meccanismo delle agevolazioni tariffarie, anch’esse vincolate alle disponibilità di bilancio.

È una situazione senza vie d’uscita? Probabilmente sì, non sembrano ravvisarsi all’orizzonte segni di ripensamento. Eppure, forse, oggi si potrebbe mettere mano a una vera riforma dei contributi dell’editoria che, senza venir meno alla linea del rigore delle regole - anzi marcandola con efficacia ancora maggiore - e facendo i conti con la scarsità delle risorse pubbliche, potrebbe dare una sistemazione di lunga durata al settore. Si può partire da quella che è la causa fondamentale della debolezza cronica dei giornali cooperativi, le scarse entrate pubblicitarie. Una scarsità che è determinata dallo squilibrio dei ricavi determinato dalle televisioni (Mediaset e Rai, soprattutto) ma anche dalle disparità profonde nella carta stampata, dove i grandi gruppi moltiplicano i contenitori per acquisire fette sempre più ampie di clienti (non rifuggendo dal ricorrere a tirature artificiosamente alte) e arrivano persino, con iniziative editoriali spregiudicate, a contendere gli inserzionisti ai giornali locali puntando a minare la loro leadership territoriale. Spesso i risicati ricavi pubblicitari per diverse testate non sono determinate nemmeno da ragioni di marketing (clamoroso, perché studiato, il caso delle emittenti private il cui fatturato pubblicitario è indipendente dall’audience rilevata, ma per i giornali si può arrivare alle stesse conclusioni), risultano difatti sovrastanti, rispetto alle considerazioni sui target, i veti politici o, meglio, ideologici.  Se, dunque, è la pubblicità a determinare lo squilibrio sembra legittimo ipotizzare che sia la stessa pubblicità ad assicurare un’azione strutturale di riequilibrio. E non con un forzoso intervento che costringa chi è possibile costringere (le istituzioni pubbliche) a inserzioni obbligatorie sui giornali locali e cooperativi, ricetta che non ha funzionato finora nonostante le disposizioni legislative elaborate in sede nazionale e locale. Ma attraverso l’istituzione di un fondo per l’editoria meritevole di contributo pubblico, alimentato con un prelievo sull’Iva prodotta dal mercato pubblicitario. In questo modo sarebbe evidente insieme la natura “risarcitoria” del fondo e la provenienza delle risorse dando un assetto difficilmente contestabile a tutto il sistema.

Per sapere di cosa si tratta non si partirebbe da zero. Chi non ricorda, infatti, il famoso (ma ormai caduto nel dimenticatoio) Sic delineato dal provvedimento Gasparri per una finalità affatto diversa e certo assai più discutibile? Il Sic, sistema integrato delle comunicazioni, tentava di calcolare l’entità del mercato pubblicitario e azzardava alcune stime; stando a queste sarebbe sufficiente un prelievo sull’Iva versata di poco più del 10 per cento per cento per soddisfare le necessità del fondo. È una strada tecnicamente percorribile? Il problema non è certo di carattere tecnico. Né ci sembra possa essere di legittimità. Nella legislazione italiana c’è un intelligente precedente, la cui legittimità non è sicuramente superiore a quella del provvedimento che noi proponiamo per i giornali. La nuova legge sul cinema, infatti, dando attuazione a una direttiva europea, prevede che le produzioni italiane, a certe condizioni stabilite dalla norma, siano sostenute con finanziamenti provenienti dalle tv nazionali, anche – si suppone – per risarcirle delle storture che la tv ha introdotto nel mercato del cinema. E allora, perché non estendere il modello?  Del resto, una decisione del governo Prodi aveva già sottoposto tutte le nostre testate all’obbligo di inserire in bella evidenza la dicitura “questo giornale usufruisce dei contributi pubblici dell’editoria”. Proprio come, con maggior garbo, è richiesto alle pellicole che quando abbiano ricevuto un sostegno pubblico sono tenute a scrivere nei titoli di coda che i soldi ricevuti dal fondo per il cinema si debbono all’accertata qualità artistica dell’opera.