Mikhail Sergheevic Gorbaciov proveniva dal villaggio di Privolnoe, nella regione russa di Stavropol, dove era nato (e battezzato per volere della nonna) il 2 marzo del 1931, e di cui diventò capo del partito locale nemmeno quarantenne, prima di entrare qualche anno più tardi nel Comitato Centrale del Pcus, dopo che a Mosca aveva sposato la giovane studentessa Raissa Titarenko, compagna di una vita vissuta intensamente, in senso umano e politico, che ora ha concluso il suo lungo percorso. Tra i ricordi e le testimonianze di queste ore torna alla mente un episodio forse poco noto, avvenuto durante la festa nazionale dell’Unità di Torino, nel settembre del 1976.

Alla fine del decennio precedente, nel 1969, appena eletto vicesegretario del Pci anche per la malattia del segretario generale Luigi Longo, Enrico Berlinguer si reca nella capitale sovietica in occasione della conferenza mondiale dei partiti comunisti, pronunciando un discorso che sorprende e turba non poco l’attenta platea, in particolare quando si sofferma sul concetto di pluralismo e di una “diversa democrazia”, tracciando il modello di una “via italiana al socialismo”: una risposta e una presa di posizione chiara e netta rispetto all’invio dei carri armati a Praga nell’agosto del 1968. Sette anni più tardi, il 27 febbraio del 1976, questa volta nella veste di segretario di partito, durante il XXV Congresso del Pcus Berlinguer ribadisce quelle posizioni al momento di presentare la proposta occidentale dell’eurocomunismo. Per questo motivo, alla fine dell’estate, l’allora segretario del distretto di Stravopol Mikhail Gorbaciov chiese di partecipare alla Festa dell’Unità di Torino, per conoscere personalmente e intrattenersi, lontano dagli occhi e gli orecchi della nomenclatura sovietica, con l’uomo che aveva avuto l’ardire di pronunciare parole mai udite prima nelle grandi sale dei palazzi del potere di Mosca.

Da quell’incontro il tempo corse in fretta per entrambi, anche nel tentativo di ricucire, in forme diverse, lo strappo causato da Berlinguer con la Grande Madre, dopo aver dichiarato esaurita la “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre. Ma secondo Gorbaciov “Berlinguer aveva ragione”, e il 13 giugno del 1984, tra la folla giunta a Roma per l’ultimo saluto al leader comunista era presente anche lui, a guida della delegazione ufficiale del partito comunista sovietico.

Poi accadde quel che accadde, già a partire dall’anno successivo, quando l’11 marzo del 1985 Gorbaciov entrò al Cremlino come segretario generale, capo del partito e del Paese di cui quel partito era padre-padrone. Perestrojka e glasnost, ristrutturazione e trasparenza, diventano così le parole alla base di un impegno politico teso a riformare anche il comunismo sovietico, cercando in questo modo di sopravvivere ai grandi cambiamenti di fine secolo, e alla reazione di chi si opponeva al suo progetto in ogni modo, sino a costringerlo alla resa, annunciata il 26 dicembre del 1991 in mondovisione.

Quella di Gorbaciov è stata una sfida enorme e complessa, rimasta incompiuta per diverse responsabilità, ma che ha comunque portato alla fine di un’epoca, la caduta dell’Urss, ridisegnando uno scenario geopolitico che ha consentito libertà individuali e collettive impensabili solo poco tempo prima, non solo in Europa, attraverso l’abbattimento di muri fisici e mentali, non solo quello di Berlino. Un tributo pagato tutto sulla propria pelle sino a oggi, malgrado i tanti riconoscimenti internazionali, tra cui il Nobel per la Pace nel 1990: lo dimostrano la solitudine degli ultimi anni, e i molti commenti ostili seguiti in Russia all’annuncio della sua morte, timbrati da Putin con il probabile veto ai funerali di Stato.

A dieci anni dalla morte di Berlinguer, nel 1994, per le edizioni Sisifo venne pubblicato in Italia un libro dal titolo Le idee di Berlinguer ci servono ancora. La firma d’autore è di Mikhail Sergeheevic Gorbaciov. Un libro da rileggere, e custodire.